mercoledì 5 settembre 2012

CAPITANO CORAGGIOSO

SI CHIAMA PIETRO RUSSO, È UN PESCATORE DI MAZARA. E SALVA I MIGRANTI DALLA MORTE

di Ludovica Jona - tratto da l'Unità 21-06-2012

Quando ho conosciuto il capitano Pietro Russo, con sua moglie Giovanna, nel locale che gestiscono a Mazara del Vallo, mi raccontò che non era riuscito ad assistere alla nascita del suo primo figlio, che ora ha 32 anni: era detenuto in Tunisia per conflitti sul mare territoriale. Sorridevano Pietro e Giovanna mentre parlavano di quei momenti di gioia e angoscia, come si fa con una vicenda passata cui si è fortunosamente si è scampati. Oggi Giovanna e il primogenito Giuseppe, ormai un uomo, sono nuovamente in ansia e in attesa di Pietro, sequestrato il l 7 giugno con gli altri dodici uomini dell'equipaggio del peschereccio Boccia II, nella città libica di Bengasi.
E nell'incertezza della Libia del dopo rivoluzione la preoccupazione è maggiore.
«Dopo una settimana di carcere ci hanno permesso di tornare nel peschereccio», racconta al
telefono Pietro Russo. «Siamo agli arresti domiciliari. Non possiamo scendere dalla barca e a terra
la situazione è pesante. Sulla banchina c'è di tutto: macchine che girano senza targa, ragazzi con le
armi nascoste e nessuno che controlla. Un Far West». Certo è meglio che in carcere. «Lì siamo stati
in 13 persone, tutto l'equipaggio, in una cella, vicino a dei criminali di guerra. Un uomo aveva
ucciso dieci persone quando faceva parte delle milizie di Gheddafi. Poi c'era gente  fuori di testa
che ce l'aveva con noi stranieri, ci minacciava..».
Il motivo del sequestro di Russo è una battaglia, senza regole, per le zone di pesca nel
Mediterraneo: la Libia nel 2005 ha infatti proclamato unilateralmente un’area protetta che si estende per 62 miglia, la metà delle acque tra la costa libica e l'isola di Lampedusa: 74 miglia pescosissime perché il mare è profondo e non è solcato da rotte commerciali. Limite che i pescatori di Mazara del Vallo si rifiutano di rispettare, rischiando così continuamente il sequestro di pescherecci e equipaggi. Come il Boccia II che il 7 giugno è stato intercettato a 40 miglia dalla costa libica.
«Quando le motovedette libiche ci hanno sequestrato, ci hanno detto che ci avrebbero subito
liberato ma poi il giudice ha decisoche si dovrà fare un processo. Siamo in attesa».
LA DIATRIBA INFINITA
Le battute di pesca per i pescatori mazaresi sono di circa 40 giorni. Lunghi periodi di navigazione
nel Mediterraneo in cui – anche al tempo di tecnologie radar e smartphone - l'unica certezza è
l'imprevedibilità degli eventi. Come quell'incredibile momento in cui, forse per ripagarlo di quella
nascita cui non ha potuto assistere, il mare in tempesta ha portato tra le braccia del capitano Russo
un fagotto di coperte che avvolgeva una bambina piccolissima. Era un mare così arrabbiato quel 28
novembre 2008 che il Ghibli - il peschereccio che allora Russo guidava - era stato chiamato via
radio dalla capitaneria di porto di Lampedusa per soccorrere un barcone carico di migranti in balia
delle acque agitate a 10 miglia a sud est dell'isola. «Ci siamo trovati davanti ad una scena
agghiacciante: ragazzi di  15 o 16 anni erano in una barchetta piena in modo incredibile di persone,
ad occhio 300-350,  che piangevano e urlavano – raccontava il Capitano Russo - bisognava agire in
fretta perché imbarcavano acqua. Così mentre gli altri due pescherecci di Mazara, il Monastir e
l’Ariete, li proteggevano da un vento forza 5, noi li abbiamo caricati. Approfittando della risacca li
abbiamo fatti salire a bordo ad uno ad uno. Un'operazione rischiosissima». Subito dopo la fine del
trasbordo il barcone, su cui viaggiavano rifugiati somali, eritrei e etiopi, è affondato sotto gli occhi
dei marinai mazaresi. «E in tutta quella confusione il primo ad arrivare a bordo, è stato quel fagotto.
L'ho aperto e mi sono trovato di fronte una bambina, piccolissima – racconta – mi ha sorriso e ho
dimenticato tutto il resto. Aveva tanta voglia di giocare, dopo tutto quel buio». Non è l'unico
episodio in cui il capitano, ora detenuto a Bengasi, ha salvato delle vite. L'altro risale al 2006.
Tornando da una battuta di pesca aveva incontrato un'imbarcazione di migranti che chiedeva aiuto.
Il peschereccio si era avvicinato, ma nella foga di salire a bordo, o forse spaventati da alcuni delfini
che saltellavano intorno, i naufraghi si erano spostati tutti su un lato e la barchetta si era capovolta.«Ci siamo trovati a dover salvare una ventina di persone che non sapevano nuotare - racconta il Capitano -. I primi ad avvicinarsi sono stati un uomo e una donna, una coppia: abbiamo preso il marito ma non lei, ci è sfuggita di mano e si è lasciata andare nelle onde. Poi, abbiamo saputo che aveva con sé un bambino di pochi mesi che le era sfuggito nel rovesciarsi della nave. L'ho vista affogare con i lunghi capelli neri che si allargavano nell'acqua. Alla fine ne abbiamo portati a riva ventuno su ventitré. Ma per lei e il bambino non c'è stato niente da fare. Un dolore grande». Oggi è il capitano Russo a chiedere aiuto: «Siamo pescatori onesti e chiedo che l'Italia non ci lasci soli».
Monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo spera e prega. E non si stanca di
rimarcare: «Al di fuori di emergenze come questa che stiamo vivendo è necessario raggiungere un
accordo, garantito dal diritto internazionale su quelle 74miglia. Non è un problema di tre
pescherecci (insieme al Boccia II sono stati sequestrati i motopesca Maestrale e Antonino Sirrato,
nda) e una città, Mazara del Vallo. Questa è una questione cruciale per il Mar Mediterraneo, che è
un bacino commerciale, ma soprattutto un ecosistema che determina le condizioni di tutta l'Europa.
Questo mare è un mare di tutti, un luogo che deve permettere ai popoli di incontrarsi e vivere,
possibilmente in pace».

Proprietà poco intellettuali

La medicina amara Accordi commerciali con l’Ue e pressioni “multinazionali” mettono a rischio chiusura le industrie farmaceutiche indiane. E con esse, cure a basso costo

di Ludovica Jona - 21 novembre 2011
Circa l’86% dei sieropositivi in trattamento nel mondo si curano con farmaci prodotti in India. La percentuale si alza al 91% per quanto riguarda i farmaci anti-retrovirali per i bambini. Il motivo del successo dei farmaci indiani è semplice: nel 2001 i medicinali anti-retrovirali coperti da brevetto costavano 10.000 dollari a persona all’anno, poi aziende del gigante asiatico hanno cominciato a produrre lo stesso cocktail in versione generica a meno di 70 dollari. E così le cure anti-aids hanno potuto raggiungere anche i malati dei Paesi poveri, oggi il 90% del totale:“Oltre 6 milioni di sieropositivi sono in cura oggi perché il prezzo dei farmaci è sceso del 99%” sottolinea Medici Senza Frontiere. Oltre a fornire anti-retrovirali a basso costo per oltre 5 milioni di persone nel mondo, l’India è anche la più importante fonte di farmaci generici di buona qualità per il cancro e le malattie del cuore. L’India è il più grande Paese produttore di farmaci generici nel mondo dopo Usa e Giappone in termini di volume, e il 13 ° per quanto riguarda il valore. Oggi però la protezione della proprietà intellettuale sui farmaci è al centro dei negoziati per l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e India. La firma prevista per fine anno rischia di far chiudere le aziende di farmaci generici del gigante asiatico. “L’India è sotto tiro, in un negoziato commerciale che ha avviato nel 2007 con l’Unione Europea e con il Canada, per penetrare nuovi mercati” spiega Nicoletta Dentico, direttore di Health Innovation in Practice e consulente per l’accesso ai farmaci della campagna Sblocchiamoli (vedi box).
“Con l’Ue ha previsto un’enorme escalation degli scambi commerciali: dai 90 miliardi di dollari di oggi ai 237 nel 2015. Il negoziato doveva concludersi nel 2010 e invece sta andando avanti. Tra le ragioni, ci sono le clausole particolarmente restrittive sulla protezione della proprietà intellettuale previste nell’accordo, che avranno impatto sull’accesso ai farmaci. Con questo negoziato bilaterale infatti, l’Europa sta tentando in tutti i modi di impedire all’India di diventare, nel campo della protezione dei farmaci, un concorrente eccessivamente scomodo. Oggi l’India è la farmacia del Sud del mondo, come dimostrano le quote di dipendenza dai prodotti generici indiani, dei programmi internazionali per l’accesso ai farmaci come il Fondo globale per l’Aids, la tubercolosi e della ong Medici senza frontiere. Ma oltre all’attacco politico dell’Ue, nei confronti dell’India, abbiamo l’attacco legale della multinazionale Novartis. Il 6 settembre Novartis ha presentato alla Corte suprema indiana un’azione contro l’articolo 3d della legge indiana. Si tratta della norma che, stabilendo criteri elevati e rigorosi sulla brevettabilità, impedisce pratiche spesso utilizzate dalle multinazionali farmaceutiche, come il ‘rinverdimento’ (evergreening) dei brevetti in scadenza. Un articolo che ha impedito alla multinazionale svizzera di brevettare in India una nuova versione del farmaco anti-cancerogeno Gleevec. Nel caso in cui la Novartis vincesse la sua causa, l’India dovrebbe modificare la sua legge in modo da rendere brevettabile qualunque cosa presentata dalle multinazionali. La situazione è rischiosa perché -secondo i network di organizzazioni che lavorano sul tema- dopo aver perso un’analoga causa contro la legge indiana nel 2007, negli ultimi anni la Novartis ha portato avanti un’azione di vera e propria pressione nei confronti dei giudici della Corte suprema indiana.
Sia che l’Ue introduca le norme restrittive sulla protezione della proprietà intellettuale, sia che la Novartis vinca la sua azione contro l’articolo 3d della legge, l’industria generica Indiana, se non scomparirà, ridurrà quella presenza sul mercato che oggi viene considerata così pericolosa dall’Occidente. In questa situazione, la cosa strana è che il direttore di ricerca e sviluppo della Novartis, Paul Hearling, è oggi a capo del Consultative Expert Working Group dell’Organizzazione mondiale della sanità per gli incentivi alla ricerca farmaceutica per le malattie dei Paesi poveri”.

Quali conseguenze potrà avere sui negoziati la recente azione della Novartis?
“Si potrebbe avere un duplice impatto sul negoziato Ue-India: da una parte mettendo un’ulteriore pressione all’India perché accetti il rafforzamento delle norme sulla protezione dei brevetti, dall’altra scatenando un’azione della società civile sul fatto che l’India è oggetto di un attacco da parte del mondo ricco.
Alla conferenza Onu sull’Aids tenutasi in luglio a New York, la comunità internazionale si è impegnata a raggiungere i 15 milioni di sieropositivi curati (dei 33 milioni malati) entro il 2015. Anche la lotta all’Aids è in pericolo. Da una parte il rapporto congiunto che è stato messo a punto dall’Onu per la conferenza sull’Aids di luglio, dimostra come gli accordi bilaterali sul commercio -con le clausole più restrittive in campo di protezione brevettuale- possono rappresentare una seria minaccia per l’accesso ai farmaci soprattutto nei Paesi dove l’epidemia ancora divampa. Ma a mettere a rischio i programmi contro l’Aids c’è anche il fatto che i Paesi donatori stanno riducendo i loro contributi finanziari a causa della crisi economica. Se combiniamo l’azione politica degli accordi commerciali con quella di riduzione dei finanziamenti, c’è una realtà che non promette nulla di buono per le realizzazioni delle dichiarazioni delle grandi conferenze”.

Il ministro del Commercio indiano Anand Sharma ha dichiarato che l’India non accetterà la contestata clausola dell’esclusività dei dati. Le organizzazioni internazionali possono tirare un sospiro di sollievo?
“Finora è emersa l’intenzione dell’India di non sottostare alle clausole che la Commissione europea avrebbe imposto loro in materia di protezione della proprietà intellettuale. In particolare la clausola dell’esclusività dei dati (data exclusivity) che vieta per un certo numero di anni alle aziende indiane l’utilizzo dei dati clinici delle ricerche realizzate dalle case farmaceutiche: l’uso dei dati clinici è fondamentale per le aziende che vogliano realizzare farmaci equivalenti in tempi adeguati e metterli sul mercato immediatamente dopo la scadenza del brevetto. Credo che la reazione del ministro del Commercio sia in larghissima parte dovuta al fatto che su questo tema c’è stata una larghissima mobilitazione della società civile indiana e internazionale. Tuttavia, la complessità del negoziato bilaterale con l’India, che non riguarda solo i farmaci ma gli investimenti, l’esportazione di prodotti indiani come le automobili e l’accesso ai mercati, fa si che il ministro del Commercio indiano sia sottoposto a una serie di pressioni divergenti. A mio parere non è ancora detta l’ultima parola perché dentro la stessa compagine governativa indiana, c’è chi vuole difendere i diritti, ma anche chi invece ha un’interesse prevalente nei confronti delle dinamiche del mercato”.

In che modo le ong e le organizzazioni internazionali, hanno fatto sentire la propria voce nell’ambito dei negoziati?
“Le ong e le associazioni della società civile indiana si sono fatte sentire in tutti modi e sono state determinanti per ritardare questo negoziato e farlo venire alla luce. Questi accordi commerciali bilaterali sono infatti caratterizzati da un’assoluta mancanza di trasparenza. Per quanto riguarda l’Europa, organizzazioni come Medici senza frontiere hanno rincorso le clausole dell’accordo, smascherando la versione continuamente raccontata dal commissario al Commercio europeo Karel De Gucht, secondo cui le norme chieste dall’Ue non andranno minimamente a toccare la salute delle popolazioni dei Paesi poveri”.

L’utilizzo dei farmaci generici è un tema sempre più sentito anche in Italia -agli ultimi posti in Europa per il consumo di equivalenti- in quanto potrebbe costituire un notevole risparmio per la spesa pubblica. È una questione che sta diventando urgente anche da noi?
“In Italia e in Europa i farmaci generici ci sono. Il problema è che c’è una comunicazione talmente aggressiva da parte delle multinazionali farmaceutiche verso coloro che somministrano i medicinali, che oggi sono pochissimi i medici e i farmacisti che propongono l’equivalente generico. Inoltre il termine ‘generico’ non è rassicurante, dovremmo utilizzare ‘bio-equivalente’”.

Dal Sud al Nord del mondo: Sblocchiamoli! (dal 14 ottobre)
Mentre a livello internazionale si rafforzano gli accordi per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale -come i brevetti sui farmaci e sui semi- i cittadini perdono, spesso a loro insaputa, parte dei loro diritti fondamentali, quali l’accesso alla salute e al cibo. Dalla brevettazione di farmaci essenziali e di semi e piante guadagnano le imprese multinazionali, ma la società civile perde sempre: con l’aumento dei prezzi dei farmaci o con il divieto di coltivare liberamente determinate specie vegetali. Ciò accade non solo al Sud ma anche al Nord del mondo. Eppure questi temi sono spesso ignorati dal mondo della politica e dei media. Per questo è nata la campagna internazionale “Sblocchiamoli - cibo salute e saperi senza brevetti”. Promossa da un gruppo di ong, associazioni e università, mira a sensibilizzare la società civile e gli enti locali, sugli effetti concreti degli accordi internazionali sui diritti di proprietà intellettuale. Il 14 ottobre a Roma partirà il ciclo di eventi che attraverserà 11 regioni italiane e 3 spagnole con seminari, concerti,
rassegne di teatro e documentari, proponendo a cittadini e rappresentanti
di enti locali azioni per riappropriarsi dei beni comuni.
Tra ottobre e novembre sono previsti eventi in Campania, Puglia, Marche, Calabria e Aragona (Spagna).
Il programma su: www.sblocchiamoli.org

Rifugiati, l'accoglienza è soltanto un affare

Le difficoltà economiche ostacolano l’accesso alle cure psicologiche. Si moltiplicano gli esempi di centri terapeutici con tariffe accessibili

di Ludovica Jona - 19 aprile 2011 
TRATTO DA AE 124


Gli occhi socchiusi per il sole che lo colpisce in pieno volto, tra le dita poche fotocopie volanti, Ahmed sta aspettando che inizi la lezione. È seduto per terra, la schiena appoggiata alla parete esterna del prefabbricato adibito a classe per l’insegnamento dell’italiano. Tutto attorno, il grigio è rotto solo dalle linee rette dei mastodontici blocchi di cemento della struttura dell’Inail di Castelnuovo di Porto in provincia di Roma, oggi parzialmente adibita a Cara, Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Ovvero uno dei 12 centri governativi -dalla capienza complessiva di quasi 5mila posti - istituiti per ospitare coloro che hanno chiesto asilo politico all’Italia, nel periodo in cui le domande di protezione vengono esaminate.
Tutti i Cara sono situati in luoghi lontani da centri abitati e generalmente circondati da alte mura e filo spinato, nonostante i richiedenti asilo possano uscire e rientrare in orari stabiliti. Nella massiccia struttura concorsuale dell’Inail alle porte di Roma, come nella vecchia pista di atterraggio della Nato a Foggia e nell’ex base areounautica di Crotone, alloggiano per mesi uomini, donne e bambini in fuga da dittature o Paesi in guerra, e spesso vittime di torture. In luoghi come questi, il somalo Ahmed, l’eritrea Ababa con il suo bambino appena nato e l’ivoriano Patrice, mangiano, dormono e attendono. Un pasto, una visita medica, ma soprattutto  un permesso di soggiorno per “asilo politico” o “motivi umanitari”. Quando questo arriva però, termina anche l’obbligo per lo Stato italiano -sancito dalla Direttiva europea 2003/9/Ce- di ospitare queste persone, che verranno immediatamente dimesse. Da quel momento dovranno cavarsela da sole, in un Paese ancora completamente sconosciuto.
Con una capienza di 680 persone, il Cara di Castelnuovo di Porto è il secondo più grande d’Italia. Ma quella che viene chiamata “scuola” è una stanzetta che potrà ospitare al massimo 30 individui. Chiedo, alla ragazza che mi viene indicata come insegnante, come sia possibile che in uno spazio del genere si tengano lezioni per diverse centinaia di persone. Parla di vari turni. Il primo comincia alle 10 di mattina, ma quell’ora è stata ampiamente superata. Mi spiega che gli insegnanti fanno quello che possono, essendo tutti volontari. Il Capitano Massimo Ventimiglia, direttore del centro, attualmente gestito dalla Croce Rossa italiana, conferma che non ci sono insegnanti di italiano retribuiti nel Cara e di conseguenza molti ragazzi si recano a Roma per seguire corsi di lingua lì. Con il rischio di essere costretti a scendere per mancanza di biglietto dell’autobus. Infatti la legge vieti ai richiedenti asilo di lavorare, e quindi di avere un reddito proprio, ma la convenzione con la prefettura non prevede la distribuzione di titoli di viaggio agli ospiti.
Eppure i fondi per un’accoglienza dignitosa dei richiedententi asilo non mancano: sul sito della Prefettura di Roma si legge che il costo complessivo dell’appalto, per tre anni, è di 34.500.000 euro. Che fanno 11,5 milioni di euro in un anno. Poiché, attualmente, il centro ospita circa 350 persone, possiamo calcolare che l’accoglienza di ognuna di esse -vitto, alloggio e assistenza sanitaria- costa allo Stato oltre 90 euro al giorno: tutti destinati all’ente gestore. A questo importo vanno aggiunte le spese dell’immobile, per le utenze (le bollette) e per la manutenzione, che -si legge nel capitolato d’appalto valido per tutti i Centri di accoglienza- “restano a carico dell’amministrazione”.
Questo sistema di accoglienza è stato istituito nel 2008, anno dell’“emergenza sbarchi”, quando il record di 30.492 domande di asilo politico  ha giustificato l’apertura di decine di Cara improvvisati in varie parti della penisola. A due anni e mezzo di distanza, con le richieste asilo ridotte di un quarto dalla politica dei respingimenti in mare (si è passati da 16.800 nei primi sei mesi del 2008 a 4.035 nel primo semestre del 2010), i Cara ospitano un numero di persone molto inferiore alla loro capienza massima.
In alcuni casi il numero degli ospiti è addirittura inferiore a quello di coloro che ci lavorano: ad agosto nel Centro di accoglienza di Trapani, che ha una capienza di 260 posti, soggiornavano 23 persone, di cui 3 bambini piccoli, ma gli addetti alla gestione -dipendenti della Cooperativa Insieme, titolare di un’appalto da 2.186.666 di euro all’anno- restavano una settantina. Nel Cara di Crotone -che con una capienza di 1.458 posti, è il Centro d’accoglienza più grande d’Europa- vi sono al momento 876 ospiti, mentre vi lavorano circa 330 persone: 150 tra assistenti sociali, psicologi, educatori, mediatori culturali e esperti per la banca dati informatizzata, impiegati dall’ente gestore “Misericordie di Isola Capo Rizzuto” (appalto annuale: 10.865.465,67 euro), 70 dipendenti del Comune addetti a pulizia e manutenzione, un centinaio di militari e il personale di una Asl aperta 24 ore su 24.
Quando il numero degli ospiti presenti è inferiore al 10% della capienza complessiva, il prezzo pagato all’ente gestore viene parzialmente ridotto, ma resta comunque garantita la retribuzione per il personale necessario, calcolato a centro pieno. Un costo rappresentano anche i militari, messi a disposizione dal ministero della Difesa nell’ambito dell’operazione “Strade sicure”: oltre 7 milioni di euro annui -segnala la campagna Sbilanciamoci!- per i circa 500 soldati destinati al controllo della sicurezza nei soli Cara.
Vi sono poi spese che non vengono conteggiate nella gestione, ma che sono determinate dalla presenza di queste strutture: lo spostamento del comando di polizia locale vicino al Cara di Gradisca d’Isonzo -realizzato per rassicurare gli abitanti della cittadina friulana spaventati dalla massiccia presenza di stranieri- è costato alla Regione 50mila euro.
I container prefabbricati installati nella ex pista di atterraggio della Nato di Borgo Mezzanone, trasformata nel Cara di Foggia, sono stati realizzati grazie a un contributo del ministero dell’Interno di 3,5 milioni di euro. Un’accoglienza che nonostante gli alti costi, lascia i richiedenti asilo a se stessi. “In molti Cara, l’assistenza sanitaria, in particolare quella fornita a donne incinte e a neonati è assolutamente carente”, afferma Rolando Magnano della ong Medici Senza Frontiere, che ha curato il rapporto Al di là del muro. Viaggio nei centri per migranti in Italia (Franco Angeli, 2010). Magnano sottolinea come la carenza sia insita nel sistema Cara: “Gli unici controlli sulla gestione dei centri vengono realizzati da funzionari delle prefetture, che non hanno alcuna competenza medica per valutare le condizioni igieniche e sanitarie degli ambienti”. Una situazione che, sottolinea Magnano, rende difficile l’identificazione, la cura e la prevenzione della diffusione di diverse patologie.
Ma il dramma, per molti richiedenti asilo, soprattutto quelli in condizione più fragile, arriva proprio nel momento in cui ottengono il permesso di soggiorno: “Quello che mi fa arrabbiare -si sfoga Ali, un ex ospite del Centro di accoglienza romano di Castelnuovo di Porto che ha ottenuto l’asilo da circa un mese e ha difficoltà a trovare lavoro- è che sono stato otto mesi nel Cara, senza far niente. Ci lasciano vivere così, e poi appena hai il permesso soggiorno ti mandano via!”. La somma di vicende personali come quella di Ali ha contribuito al  proliferare, nella capitale come in altre città italiane, di assembramenti di persone cui è stato riconosciuta la protezione internazionale ma che vivono in condizioni di estremo degrado: dall’accampamento di profughi afgani alla stazione Ostiense, alle occupazioni di palazzi in zona Romanina da parte di rifugiati del Corno d’Africa, fino alla  concentrazione in condizioni disumane, di centinaia somali nell’ex ambasciata di Somalia, in via dei Villini a Roma.


L'integrazione senza fondi
Dopo l'asilo i migranti potrebbero fruire del programma "Sprar", coordinato dall'Anci, ma mancano le risorse

Si chiama Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) il programma governativo per l’accoglienza e l’accompagnamento all’integrazione di coloro cui è stata riconosciuta la protezione. Coordinato dall’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), attraverso la rete dei comuni e la collaborazione di associazioni radicate sul territorio, realizza progetti di accoglienza della durata di un anno, destinati a gruppi di 15-20 persone, tra richiedenti asilo e rifugiati. Tuttavia, i posti finanziati annualmente per questo sistema di accoglienza -con uno stanziamento di circa 30 milioni di euro- sono solo 3mila, e anche se si riescono ad accogliere circa 7mila persone (grazie al turn over) resta un numero evidentemente inadeguato alla domanda: oltre 30mila richiedenti asilo nel 2008 e quasi 20mila nel 2009.
Per questo, le liste d’attesa per accedere ai progetti Sprar sono lunghissime, e molti rifugiati riconosciuti si trovano a vivere in condizioni disumane come quella dell’ambasciata somala a Roma, di cui si sono occupati i quotidiani.  Eppure gli 11,5 milioni di euro spesi in un solo anno per un Centro di accoglienza come quello di Castelnuovo di Porto -che attualmente ospita 350 persone- si sarebbero potuti coprire quasi interamente le spese dei 1.500 posti presentati dagli enti locali del Sistema di protezione, ma rimasti senza finanziamento. La direttrice dello Sprar Daniela di Capua spiega infatti che i 123 enti locali partecipanti hanno presentato progetti per 4.500 posti, ma non è stato possibile avviarli tutti per mancanza di fondi da parte del ministero dell’Interno.
Il Viminale non si è però opposto al rinnovo, tra il 2009 e il 2010, delle convenzioni con gli enti gestori di tutti i principali Cara italiani, che oggi risultano semivuoti.  Pur garantendo un elevato standard di servizi alla persona -assistenza legale e sanitaria, mediazione linguistico-culturale, inserimento scolastico dei minori, orientamento per l’alloggio e per l’inserimento lavorativo- il sistema Sprar ha un costo molto inferiore a quello dei Cara: 28 euro al giorno per persona contro i 60-70 delle grandi strutture. Il risparmio è dovuto al fatto che i progetti realizzati dai Comuni possono usufruire dei servizi già messi a disposizione dalle amministrazioni locali per la collettività, come Asl o centri di orientamento al lavoro. Si eliminano, inoltre, gli enormi apparati di logistica e sicurezza, ospitando i richiedenti asilo e i rifugiati in piccoli appartamenti situati nei centri cittadini.
È alta anche la percentuale di rifugiati che si rendono autonomi dopo aver usufruito di uno di questi progetti: secondo l’ultimo rapporto Sprar, nel 2009 hanno trovato un lavoro e una sistemazione autonoma 1.216 beneficiari su 2.840, ovvero quasi la metà.
Andrebbe incentivato, come raccomandava già nel 2007 il rapporto De Mistura del Centro alti studi delle Nazioni Unite, che aveva realizzato una valutazione sul sistema di accoglienza italiano.


Box: Cooperative all'appalto
Se i richiedenti asilo non ricevono gran benefic
io dall’ingente investimento pubblico destinato alla loro accoglienza, questa rappresenta certamente un affare per gli enti gestori dei Centri di accoglienza, che se la contendono letteralmente. È il caso, ad esempio, del Cara di Foggia: la Croce rossa italiana ha fatto ricorso al Tar contro l’assegnazione al consorzio di cooperative “Connecting people”, ottenendo la modifica dell’esito della gara. L’ente rivale aveva indicato nell’offerta economica un numero di operatori diverso da quello inserito in quella tecnica, e inferiore a quello richiesto dal capitolato d’appalto. Presieduto dall’ex parlamentare della Margherita Giuseppe Scozzari, Connecting People è nato nel 2005 e raggruppa 69 cooperative in tutta Italia, gestendo 17 centri per migranti, tra cui quattro Cara (Gradisca d’Isonzo, Brindisi, Trapani e Foggia) e due Centri di identificazione ed espulsione. La sua adesione al consorzio cattolico Cgm, uno dei più vasti gruppi di cooperative in Italia, permette a Cp di accedere ai finanziamenti di Intesa Sanpaolo, essenziali per presentarsi a bandi che richiedono notevole capacità di anticipazione finanziaria. Appartenenti al mondo cattolico sono anche l’ente gestore del Cara di Crotone, membro della federazione “Misericordie d’Italia” che raggruppa oltre 700 confraternite, e la cooperativa Auxilium affidataria del Cara di Bari. Auxilium fa capo alla holding di cooperative “La Cascina”, legata a Comunione e Liberazione, che secondo un’inchiesta condotta dalla procura di Potenza nel 2008 sarebbe stata favorita dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta nell’ottenimento, senza gara d’appalto, della gestione del Cara di Policoro, in provincia di Matera.
Invece la cooperativa “Albatros 1973”, nel 2006 oggetto di inchieste per episodi di razzismo e maltrattamento di migranti, si è vista rinnovare nel 2009 la gestione del Cara di Caltanissetta: un centro per 456 persone -attualmente ne ospita circa trecento- per un’appalto triennale da oltre 18 milioni di euro. Ma la cooperativa non ha un sito web e nemmeno un numero sull’elenco telefonico per essere contattata.