domenica 5 gennaio 2014

Chiapas, L'altra politica

Reportage del luglio 2005


Non per guadagnare voti, né per perseguire in alcun altro modo il potere e neanche esclusivamente a favore della causa indigena, ma per creare uno “spazio di ascolto” di necessità, sogni e aspirazioni. Lanciata dall’Esercito Zapatista nel luglio 2005, la “Otra campaña”, traducibile come “campagna diversa”, vuole percorrere il territorio messicano per incontrare e ascoltare le voci dei cittadini“più umili e semplici”. Essa avrà inizio proprio in periodo elettorale, ma proseguirà perché lo spazio dell’ascolto non debba interrompersi. L’inedita iniziativa e’ un coerente passo avanti del movimento ispirato a Emiliano Zapata, che intende costruire dal basso una società diversa.

La Campagna lanciata dall’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) segue e attua la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona del Giugno 2005 che afferma “sono molti i cammini di resistenza contro l’ingiustizia, e molti e diversi coloro che li portano avanti” e culmina con la chiamata a “tentare uniti di organizzare queste diverse esperienze, in un progetto per una diversa forma di fare politica, di sinistra, anticapitalista e per una nuova Costituzione”.

Organizzazioni politiche (non istituzionali) di sinistra, organizzazioni sociali, di indigeni, di lavoratori, di religiosi, di donne e di omosessuali, collettivi di artisti e studenti, ONG e singoli, anziani e bambini, oltre a decine di osservatori internazionali, hanno partecipato alle riunioni preparatorie della “Otra campaña”, per manifestare la loro adesione e fare nuove proposte. Realtà tanto variegate hanno mostrato un gran desiderio di unirsi e rafforzarsi, attratte irresistibilmente dal movimento più famoso al mondo che lotta per valori ideali e li mette in pratica con un sistema di governo alternativo e autonomo. Le 5 Giunte del Buon Governo, organi di direzione degli altrettanti territori autonomi zapatisti (Caracol), si contrappongono al Malgoverno centrale messicano, che non ha mai rispettato la cultura comunitaria degli indigeni. Tale sistema, che realizza una democrazia partecipativa secondo la rotazione nelle cariche, è stato instaurato in seguito al sollevamento del 1/1/1994, ispirato alle parole dell’eroe della Rivoluzione messicana Emiliano Zapata: “la terra è di chi la lavora”.



Le riunioni preparatorie della campagna si sono svolte in diverse comunità appartenenti al Caracol La Garrucha. Il Sup Marcos, nei suoi discorso iniziali ha raccontato la storia delle comunità ove la riunione si svolgeva, descrivendo così le vicende degli indigeni del Chiapas: sfruttamento, violenza e inganno, da parte di latifondisti, esercito e PRI , ma anche 500 anni di resistenza, fino al sollevamento del 1994: “Arrivò un momento in cui il Signor Ik non parlava più, ma ascoltava. Ascoltava la indignazione e la rabbia. Già prima l’aveva ascoltate, però ora c’era una differenza: erano una rabbia e una indignazione organizzate”.

Oggi, questi terreni dove siamo stati ospitati in centinaia, grazie al grande impegno e alle strutture costruite appositamente dalle comunità, sono amministrati autonomamente secondo i principi della forma comunale di lavoro e possesso della terra, già vigente prima dell’imposizione della proprietà privata da parte dei colonizzatori. Una delle partecipanti indigene ha descritto l’importanza della terra, rimandando al nome della comunità in cui ci trovavamo, “Dolores Hidalgo”: “..come il dolore di una mamma quando ha un figlio, un dolore che dà grande gioia: per la terra si lavora, si lotta, si soffre, ma essa poi genera il mais, il caffè, la legna degli alberi, il nutrimento degli animali, la casa..”.

Pedro, rappresentante di un’Unione di lavoratori, dice che le loro resistenze le fanno attraverso blocchi stradali, ma anche petizioni dirette al Governo. Il suo villaggio non fa parte dei territori zapatisti, ma afferma che le condizioni di vita, in seguito al sollevamento del ’94 sono notevolmente migliorate per gli indigeni: ora il governo, trovandosi davanti una forza tanto compatta, dà maggiore ascolto alle richieste di migliori scuole, ospedali, elettrificazione.. In alcuni casi i lavoratori, non ricevendo ascolto dal governo centrale, si rivolgono alle autorità autonome: come i taxisti del villaggio di Tapachula, che non ottenendo il permesso per lavorare, si sono recati presso la vicina Giunta del Buon Governo, dove hanno trovato un luogo per parlare e organizzarsi. Per Pedro l’obiettivo resta l’autonomia, anche se non tutti sono d’accordo, dice “spesso il potere economico debilita la lotta”. La resistenza degli indigeni zapatisti oggi è proprio questo, il“Non vendere la dignità”: come i maestri delle scuole autonome, che svolgono il loro lavoro avendo in cambio solo mais e fagioli dalla comunità. Qui, la dignità e la capacità di autogovernarsi con il dialogo, affascinano e fanno sognare in tanti.

Molti sono i collettivi di artisti e studenti che sostengono il movimento attraverso diverse forme creative e di comunicazione alternativa: in particolare i graffiti, che  nelle comunità autonome raggiungono un’estetica estremamente espressiva, ma anche con video, mostre e  pubblicazioni. Alcune associazioni messicane, così come i comitati internazionali di appoggio, sostengono progetti per migliorare le condizioni di vita degli indigeni, nei campi dell’agroecologia, ingegneria, sanità, educazione.. Alle riunioni hanno parlato organizzazioni per i diritti umani, collettivi di anarchici, omosessuali, femministe, ma anche gruppi punk e rap, con interventi a volte ripetitivi, in una maratona politica di quasi 18 ore. Mentre Marcos ascoltava e appuntava. Nel discorso finale il Sup ha apprezzato la varietà delle visioni e degli apporti dei partecipanti, assicurando che la “Otra campaña”, sarà contraria a qualsiasi tendenza egemonizzante e omogeneizzante. Il Subcomandante ha però sottolineato un punto fondamentale cui tutte queste realtà devono conformarsi per aderire: “Non cerchiamo un luogo per la parola, bensì un luogo per l’udito”. L’udito, un senso poco esercitato, in genere, dai leader politici, una capacità di cui il Subcomandante ha dato prova nella lunga maratona, una metodologia di lavoro per le Giunte del Buon Governo, ma soprattutto una virtù fondamentale per costruire un mondo più equo e pacifico, alla quale gli incontri di questi giorni, incentrati sull’ascolto di diverse esperienze, hanno cercato di preparare noi tutti.

giovedì 2 gennaio 2014

Mohamed e il pescatore: Storia di due uomini e un miracolo nel Mediterraneo

Questi due uomini, così lontani per origine, età, cultura e prospettive, erano diventati così vicini, per l'intimità che si crea nel confine tra la vita e la morte, tra il mare e la terra, tra l'antica legge del mare e la paura di essere accusati di “favoreggiamento di immigrazione clandestina”


Mohamed ha 26 anni ed è fuggito dalla Mauritania perché non sopporta più la condizione di schiavitù in cui lui e la sua famiglia vengono tenuti, in quanto neri. Ma il gommone che deve portarlo in Italia insieme ad altre 47 persone prende acqua e a poco a poco affonda, fino a che non resta lui solo su un pezzo di legno. Decide di attendere la morte ma viene distratto dalla vista di un delfino che gli ricorda che un giorno qualcuno gli ha detto “se incontri un delfino in mare, potrà salvarti”.
Vito è il capitano di un peschereccio di Mazara del Vallo: Ha 50 anni, ma lo spirito inquieto di un ragazzo. Ed è proprio per questo che, poichè non riesce a stare fermo e seduto davanti al monitor del peschereccio che guida, ma ha bisogno di alzarsi in piedi a scrutare il mare, all'alba di un giorno di fine agosto osserva qualcosa di inusuale affiorare tra le onde. Prende il binocolo pensando si tratti di una boa, ma poi vede un braccio alzarsi, muoversi verso di lui.

Ho ascoltato per la prima volta questi racconti di Mohamed e Vito quattro anni fa, quando, con l'idea di realizzare un documentario sul miracoloso salvataggio di un uomo solo in mezzo al mare premiato dall'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), su spinta della produttrice Marta Zaccaron mi sono messa alla ricerca dei due protagonisti. Quando lo abbiamo rintracciato, Mohamed si trovava ad Alessandria, dove era stato inserito in un progetto di accoglienza e formazione professionale per rifugiati. Vito invece, lo abbiamo intervistato nella sua cittadina di Mazara del Vallo, tornato da una delle battute di pesca che in queste zone durano tra un mese e un mese e mezzo. Questi due uomini, così lontani per origine, età, cultura e prospettive, erano diventati così vicini, per l'intimità che si crea nel confine tra la vita e la morte, tra il mare e la terra, tra l'antica legge del mare e la paura di essere accusati di “favoreggiamento di immigrazione clandestina”. Entrambi avevano un grande desiderio di re-incontrarsi. E' stato possibile anche grazie al film, che in hanno creduto i giudici del Fondo Media della Commissione Europea e del Fondo per l'Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia, con cui è stato finanziato.

Il documentario parte da Parigi, dove Mohamed è andato a trovare alcuni suoi parenti, per arrivare, seguendolo nel suo viaggio in treno fino alla cittadina siciliana di Mazara del Vallo dove vive Vito, rievocando un viaggio drammatico e doloroso, ma anche vivendo insieme ai due protagonisti, un incontro che dà speranza per il futuro. Se il film racconta una storia di grande umanità e fratellanza, come quando Vito dice “per me ora Mohamed è come un figlio”, attraverso il giovane venuto dall'Africa si denuncia anche la disumana violazione della sacra legge del mare, cui tante normative inique hanno portato: “Tante volte, abbiamo visto barche passare, abbiamo fatto segni, urlato ma niente, scappavano tutte”, racconta Mohamed. Per me, la produttrice Marta Zaccaron e il regista Marco Leopardi, l'obiettivo è dare voce a tutti coloro che come Mohamed cercano un mondo migliore. Mohamed parla anche per tutti coloro che non ce l'hanno fatta.
Ludovica Jona
Il film può essere visto a questo link:

Per info:
https://www.facebook.com/MOHAMEDEILPESCATORE?ref=hl



L'auto-aiuto è welfare per la salute mentale

L'inclusione come antidoto alla malattia: l'esperienza degli utenti-operatori della “Rete toscana utenti di salute mentale” e della cooperativa Pegaso Blue, che tra Massa-Carrara e Pisa gestisce 4 gruppi d'appartamento e ospitalità in alcune case private.

di Ludovica Jona - 1 ottobre 2013
TRATTO DA AE 153
 
Fiducia, speranza, protagonismo e realizzazione personale sono parole chiave nel descrivere l'azione della “Rete toscana utenti di salute mentale”, che promuove la partecipazione dei pazienti alle attività e alle decisioni che li riguardano.
"Ne fanno parte esclusivamente pazienti, ovvero persone che come me sono sotto trattamento farmacologico e controlli con psichiatri”, afferma la presidente Maria Grazia Bertelloni.
Nata nel 2006 dall'esperienza del gruppo di Auto Mutuo Aiuto di pazienti psichiatrici di Massa-Carrara, la Rete comprende diverse realtà associative sul territorio regionale. Tra queste c’è la cooperativa Pegaso Blue, che gestisce l'assistenza domiciliare in quattro gruppi-appartamento e in diverse case private, ma offre servizi anche ad associazioni che trattano altre disabilità.

Gli utenti che svolgono l'assistenza domiciliare vengono definiti “utenti operatori”, e hanno ottenuto una qualifica attraverso i corsi per “facilitatore sociale” e “operatore per le marginalità sociali” organizzati dalla Asl locale. Così accade che Roberta, che fa parte del gruppo dell'Auto Mutuo Aiuto di Massa, segue come operatrice, per alcune ore alla settimana, i cinque utenti di un gruppo-appartamento alla periferia della cittadina toscana. Tra loro c'è Mauro, che in passato è stato ricoverato per sei anni in un Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) -struttura penitenziaria per persone con malattia mentale- ma che oggi è impiegato in un progetto per l'accompagno dei ragazzi autistici nell'ambito di una convenzione stipulata dalla Pegaso Blue con l'Anffas (Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva o relazionale). Maria Grazia, Roberta e Mauro fanno parte di una catena della solidarietà che risulta il mezzo più efficace per la cura della malattia mentale, perché affronta il suo tratto più atroce: il senso di vuoto e inutilità, lo stigma e la solitudine.

Guardando dalla finestra del piccolo ufficio del gruppo di Auto Mutuo Aiuto nel centro di Massa, accanto agli studi di avvocati e altri professionisti, Maria Grazia mi parla del medico che ha reso possibile questa rivoluzionaria esperienza, l'ex primario della Asl locale, Remigio Raimondi: “Ha fermamente creduto in noi, considerando lo stigma e il disagio sociale come i principali scogli da superare. Ha sostenuto i gruppi appartamento e altre attività per l’inclusione e non ha esitato a mettersi contro i tanti che si opponevano al suo approccio”.
Raimondi è morto per infarto un anno fa, all’età di 60 anni: “Si può dire che per noi ha dato la vita”, dice Maria Grazia. Ora, lei e gli altri membri del gruppo devono andare avanti senza il loro padre ispiratore. Solo tre giorni prima della morte del primario -come in un passaggio di consegne- è nato il Coordinamento nazionale utenti salute mentale cui hanno aderito rappresentanti di 11 regioni italiane. L'obiettivo è promuovere quanto affermato dall'Ufficio per l'Europa dell'Organizzazione mondiale della salute (Oms) nel 2010: “Le persone dovrebbero essere spinte a promuovere la loro stessa salute, interagire effettivamente con i servizi per la salute mentale ed essere parte attiva nel controllo della malattia”.
 

Maria Grazia Bertelloni nell'Ufficio del Gruppo di Auto Mutuo Aiuto a Massa.

L’appartamento romano

L’appartamento romano Dal 2003 un gruppo di utenti del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma A vive in cohousing: successo d’integrazione, risparmio per il ministero ---

di Ludovica Jona - 30 settembre 2013
TRATTO DA AE 153

“Mi sembra un sogno questa vita che faccio oggi con Luigi”, dice Andrea, 40 anni e una diagnosi di schizofrenia.
Occhi chiari, pacati, racconta il suo passato fatto di viaggi in treno, fughe dalla casa dei genitori, notti di paura nelle stazioni di città sconosciute per sfuggire a voci che gli rimbombano nella mente da quando aveva vent’anni.
E cartoni di vino bevuti in solitudine, fermi della polizia per schiamazzi, ricoveri in reparti psichiatrici che assomigliano a gironi infernali. Oggi fa corsi di cucina e piccoli lavoretti da giardiniere, si prende cura della casa e spesso, nei fine settimana, va in montagna. Luigi, il suo coinquilino, ha una collezione di oltre mille cd e ha cominciato a leggere libri per superare la timidezza. Nell’appartamento che condividono da quattro anni hanno raggiunto un loro equilibrio. Come Luisa e Fabio, che sono diventati una coppia e -dopo oltre sette anni di convivenza- dimostrano di resistere a ogni crisi, a dispetto delle loro patologie psichiche. In tutto sono 27 gli utenti del Dipartimento di salute mentale (Dsm) della Asl Roma A che dal 2003 a oggi, terminato il percorso in comunità terapeutica, hanno cominciato un progetto abitativo autonomo in appartamenti regolarmente presi in affitto, con il supporto dell’associazione Solaris (www.lechiavidicasa.it, fondata da parenti di pazienti), il sostegno economico della Asl per vitto e alloggio e quello del Secondo Municipio per garantire la presenza di assistenti domiciliari alcune ore alla settimana.
“Le chiavi di casa” è il nome del progetto che ha rotto il ciclo vizioso di ricoveri coatti in ospedale, permanenze in comunità psichiatriche, cliniche, case famiglia e temporanei ritorni dai genitori, che per Andrea, Luigi, Luisa e Fabio era diventato routine. Una condizione esistenziale di instabilità abitativa che -a 35 anni dalla legge 180 che ha sancito la chiusura dei manicomi- condanna ancora chi soffre di disturbo mentale in Italia, nel limbo della malattia e della segregazione.


“Abbiamo voluto forzare un po’ i vincoli del nostro ruolo, anche prendendoci dei rischi e chiedendo ai pazienti di investire risorse proprie, ma i risultati sono stati sorprendenti” esclama Antonio Maone, psichiatra responsabile della Comunità terapeutica “Sabrata” di Roma, da cui provengono quasi tutti i pazienti inseriti nel progetto. Soltanto uno di loro ha avuto un ricovero ospedaliero in Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) dopo l’inizio del progetto e ha dovuto abbandonare il percorso di autonomia. “Misurando il miglioramento in termini di stabilità residenziale, possiamo dire che il successo è stato del 98% -afferma Maone-: il fatto di poter contare su una propria abitazione ha avuto anche un ruolo terapeutico”.
“Entrare e uscire dagli Spdc è un incubo. Chi non c’è stato non può capire -racconta, animandosi, Gabriella, una vita normale da impiegata fino a 40 anni, tenendosi dentro le voci e le visioni che aveva, poi esplosa in patologia schizofrenica, vita in strada, solitudine-. Sono anni che non ci metto più piede, per fortuna”. Vive con Donata in un appartamento vicino a quello degli altri ragazzi del gruppo che si è formato in comunità: “Abbiamo la nostra intimità, ma quando ci sentiamo soli ci facciamo visita”.
 Il sistema del “gruppo appartamento” o cohousing risulta non solo clinicamente appropriato ma anche economicamente efficiente. Se applicato a livello nazionale potrebbe contribuire a curare anche le sofferenti casse dello Stato: “Il risparmio è enorme quando si separano i bisogni abitativi dalle necessità assistenziali”, spiega Maone che ha realizzato una stima mettendo a confronto il costo di un distretto sanitario che ha realizzato progetti di cohousing per i propri pazienti, e quelle di un distretto che non lo ha fatto. “La spesa pubblica media di un paziente psichiatrico in regime di cohousing risulta di circa 350 euro al mese, mentre quella necessaria per un paziente ospite di strutture residenziali psichiatriche si aggira intorno ai 3mila euro (da 1.500 a 6mila a seconda dei casi)” afferma Maone.
Innanzitutto il paziente psichiatrico che ha risorse economiche proprie contribuisce al costo dell’abitazione, senza ricadere, per la residenza, a carico del Servizio sanitario nazionale. Ma anche per coloro che per pagare affitto e vitto devono essere sostenuti dalla Asl, la soluzione del “gruppo appartamento” permette di abolire le spese dell’assistenza 24 ore su 24 da parte di operatori socio-sanitari (che è obbligatoria nelle altre forme di residenzialità) a favore di un’assistenza più leggera. Si abbattono i costi fissi di lavanderia e del personale per la cucina e le pulizie e i pazienti hanno maggiori possibilità di venire integrati in attività lavorative nel proprio territorio.



A Ciampino, due gruppi-appartamento sono stati avviati il 1 maggio scorso, per ovviare all’insostenibilità finanziaria della casa famiglia locale. Su sollecitazione del direttore dell’Unità operativa di Salute mentale, Marco D’Alema, il Comune ha sostituito la casa famiglia con un progetto di gruppi-appartamento: “Il costo annuale della residenzialità è passato da 130mila a 50mila euro e, in più, abbiamo aumentato il numero degli utenti, da 4 a 6”, spiega il funzionario Raimondo Lucarelli. Anche in questo caso l’avvio del cohousing è stato possibile grazie all’incontro tra un medico determinato a creare un progetto ad hoc per il benessere dei pazienti e un’associazione di familiari (“La Rosa Bianca”) che si rende disponibile a fare da garanzia per l’affitto e ad occuparsi del pagamento delle bollette. Daniele, Luca e Paolo, inquilini di uno degli appartamenti aperti a maggio mi attendono per il caffè con una tavola ordinatamente apparecchiata, tazzine colorate e qualche dolce. L’appartamento è luminoso e pulito, e sulla porta è attaccato un foglio con la tabella dei turni per i lavori di casa.

“In casa famiglia avevo il barbone lungo, non mi lavavo quasi e mi svegliavo ogni giorno alle 12. Ero sempre davanti alla Tv -racconta Danilo-. Oggi non posso più perché c’è l’organizzazione della casa cui badare e con la borsa lavoro da giardiniere della Comunità di Capodarco pago parte dell’affitto -spiega-. Quando non è necessaria, l’assistenza 24 ore su 24 può essere un danno, oltre che uno spreco di risorse, perché disabitua il paziente a pensare che può risolvere un problema con capacità proprie”, afferma il dottor D’Alema, che è presidente dell’Airsam (Associazione italiana residenze per la salute mentale). Eppure a livello nazionale sono le strutture residenziali 24 ora su 24 ad assorbire la maggior parte delle risorse: quasi 56mila posti letto in strutture residenziali socio-assistenziali e socio-sanitarie sono occupati da adulti con disabilità e patologie psichiatriche scrive l’Istat nel  rapporto 2010. Si tratta di strutture prevalentemente private (il 70%). Mentre per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri in Spdc (costo che va dai 200 ai 600 euro al giorno per ricoveri che durano in media 2 settimane) i dati Istat indicano che le dimissioni di pazienti affetti da disturbi psichici sono state 290.964 nel 2008.
“Così restano pochi soldi per le attività sul territorio, come i gruppi-appartamento, che dovrebbero essere alla base della psichiatria italiana di comunità, figlia della legge 180” afferma Renzo De Stefani, primario del Servizio di salute mentale di Trento. Il 70% del budget per la salute mentale va invece a strutture residenziali in cui i pazienti assumono farmaci senza controllo, tendono ad ingrassare e a passare la giornata distesi a letto”, incalza Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dsm di Trieste, secondo cui l’alternativa è un “budget di salute”, modello già utilizzato in Friuli-Venezia Giulia: con questo modello, i 3-5mila euro mensili a persona, generalmente usati per le rette della clinica o comunità, “vengono spesi in attività per il reinserimento sociale e per l’alloggio in appartamenti di massimo 6 persone”.




A Roma però la situazione è diversa: “Il possibile futuro taglio dei sussidi della Asl può significare la fine del progetto per Andrea e Luigi -spiega con preoccupazione Lotario Turini, presidente dell’associazione Solaris-: il rischio è che per mancanza di 200 euro al mese, i pazienti di via Sabrata che non hanno soldi propri per l’affitto vengano rispediti nel circuito di Spdc, clinica-comunità-casa famiglia, che costa sui 5mila euro al mese, oltre ad annullare il lavoro di anni”.
Un paradosso per una Regione come il Lazio, commissariata da anni e con un debito sanitario molto elevato (636,3 milioni nel 2012): “Circa l’80% delle persone che hanno fatto un percorso in comunità psichiatrica arrivano a una condizione in cui non hanno più bisogno di soluzioni istituzionali come le strutture residenziali e l’assistenza 24 ore su 24, eppure generalmente continuano a vivere con questo livello di assistenza per il fatto che non esistono concrete alternative”, afferma Maone. Il problema risulta in parte organizzativo -per un ricovero basta la ricetta del medico, per un cohousing bisogna chiedere permessi e attivare un progetto- e in parte economico. I gruppi-appartamento nel Lazio vengono finanziati grazie ai “sussidi terapeutici per disagiati psichici” previsti dalla legge regionale 49/83 istitutiva dei Centri di salute mentale (Csm), con cui però devono essere finanziate anche tutte le altre attività di supporto all’autonomia delle persone con malattia mentale, mentre le cliniche e le comunità psichiatriche godono di risorse certe, grazie a convenzioni con la Regione.
La disparità nello stanziamento delle risorse è enorme: per i sussidi terapeutici per disagiati psichici -con cui vengono finanziati anche borse lavoro, attività di socializzazione, vacanze- la Regione ha versato nel 2012 alle 12 Asl del Lazio circa 6 milioni di euro. Lo stesso anno ha destinato alle strutture residenziali del territorio regionale oltre 83 milioni di euro: si tratta di 1.350 posti letto, di cui 800 in case di cura e 550 in comunità.
 
“La sfida della tutela della salute mentale passa per i meccanismi di finanziamento, che dovrebbero evolvere attorno a percorsi integrati socio-sanitari su cui misurare i risultati sociali, sanitari ed economici -afferma Antonio Lapenta, consulente di economia e management in sanità-. Si tratta di promuovere sperimentazioni all’interno del Servizio sanitario nazionale e del complesso dei meccanismi di protezione sociale, misurarne e confrontarne i risultati a livello nazionale e stabilire criteri d’incentivazione”. In questo modo “facendo evolvere la figura del degente istituzionalizzato a quella di paziente curato fino a quella di cittadino tutelato”. In gioco c’è il compimento del diritto costituzionale alla salute: “La libertà è terapeutica" diceva Franco Basaglia, anche quella di sperimentare forme nuove per garantire l’esercizio dei diritti “Le parole ritrovate” di Trento (www.leparoleritrovate.com), attualmente alla fase di raccolta firme, che propone l’inserimento dei temi “Abitare, lavoro e socialità” tra gli impegni dei servizi e stabilisce che “la parte variabile del salario degli operatori”, debba essere determinata dal “tasso di fiducia e di speranza di utenti e familiari”. Da misurare, “secondo modalità decise dalle consulte di salute mentale”, “almeno una volta all’anno”. Va in questo senso la proposta di legge di iniziativa popolare “181” promossa dal movimento “Le parole ritrovate” di Trento (www.leparoleritrovate.com), attualmente alla fase di raccolta firme, che propone l’inserimento dei temi “Abitare, lavoro e socialità” tra gli impegni dei servizi e stabilisce che “la parte variabile del salario degli operatori”, debba essere determinata dal “tasso di fiducia e di speranza di utenti e familiari”. Da misurare, “secondo modalità decise dalle consulte di salute mentale”, “almeno una volta all’anno”.

Da Trieste a Matera
Sono nate grazie all’impegno di singoli medici e amministratori locali, perciò non esiste un elenco di tutte le realtà di cohousing in ambito psichiatrico oggi attive in Italia. Elenchiamo alcune tra le più significative. L’esperienza più antica è a Trieste, prima città  a chiudere un manicomio, quello di cui era direttore Franco Basaglia: Qui il cohousing è cominciato nel ‘75 e oggi la “regola” della residenza psichiatrica sono appartamenti di meno di 6 persone. Nel distretto di Torino1 c’è l’esperienza più vasta: 60 gruppi appartamento con diversi livelli di assistenza, e 150 persone che in seguito sono andate a vivere da sole. A Trento ci sono le sperimentazioni più innovative -come la pratica di intestare l’affitto ai pazienti stessi per favorirne la responsabilità, ma anche l’idea di promuovere la convivenza dei pazienti psichiatrici con rifugiati e richiedenti asilo politico, per andare incontro a diverse necessità-. Nel centro-Italia c’è l’esperienza rivoluzionaria della Rete toscana utenti salute mentale, i cui membri hanno costituito una cooperativa che gestisce gruppi appartamento -a Massa-Carrara e a Pisa- e crea lavoro.
Il cohousing è poi sperimentato a Roma, Ciampino (Roma), Bologna, Termoli (Is) e Bergamo. In Basilicata nel ‘78 ci fu la prima esperienza nel centro-Sud Italia di una struttura residenziale alternativa al manicomio: Oggi sono 3 i gruppi appartamento in provincia di Matera nati 10 anni fa su iniziativa della cooperativa “Progetto Popolare”. In Sicilia, a Caltagirone (Ct) sono nati 4 gruppi appartamento grazie a un progetto lavorativo di produzione agricola finanziato dall’Unione europea 10 anni fa, ma che prosegue ancora oggi.