martedì 29 dicembre 2015

Il Club dove la malattia mentale si cura senza psichiatri. E con il lavoro

Viaggio nel “Club House” Itaca di Roma, una delle strutture nate negli Usa e che si stanno diffondendo anche in Italia. Con la gestione collettiva di spazi comuni le persone recuperano professionalità e fiducia, per affrontare una nuova occupazione e riprendere in mano la vita

Pubblicato su Redattore Sociale il 9 ottobre 2015
ROMA - Nessun camice bianco in questo luogo dedicato al recupero di persone con disagio psichico. L'assenza di psichiatri, ma anche di psicoterapeuti, è una regola nelleClub House, strutture nate per favorire il reinserimento sociale delle persone con disagio psichico attraverso il lavoro, la socialità e il mutuo-aiuto. Anche se ciascuno di coloro che frequentano le Club House ha il proprio psichiatra di riferimento, all'interno di queste "palestre" di vita e lavoro sono assenti figure mediche su cui “scaricare” responsabilità.
La sala comune del Club Itaca
Salute mentale. Club Itaca, Sala comune
“Come specialisti abbiamo icounselor (che lavorano nell'orientamento e nel sostegno delle potenzialità),ma per lavorare qui l'importante è essere capaci di relazionarsi con persone molto sensibili", spiega Guido Valentini, direttore del Club Itaca di Roma, una delle quattro strutture che in Italia applicano il metodo nato in America negli anni '50 negli Stati Uniti su iniziativa dello psichiatra John Beard. Oggi sono circa 300 le Club House aperte in tutto il mondo, soprattutto nei paesi anglosassoni ma si stanno affermando anche in Italia:dopo la prima esperienza di Milano, ne sono nate altre a Roma, Firenze e Palermo, mentre alcune strutture sono in via di apertura a Napoli, Genova e Parma. I servizi sono sempre offerti in modo gratuito, grazie al sostegno di privati.
Quando alla vigilia della Giornata della salute mentale (10 ottobre) entriamo nel Club Itaca, tutti si presentano per nome e non ci è possibile distinguere gli operatori dagli utenti che qui vengono chiamati “soci” perché, una volta deciso di intraprendere il percorso di riabilitazione, aderiscono all'associazione. “E’ un gioco che facciamo sempre - ci dirà più tardi il direttore del centro Guido Valentini - generalmente le persone in visita non riescono a capire chi è staff e chi è socio e noi all’inizio non lo diciamo”. Un traguardo importante per chi per lunghi periodi ha avuto a che fare con lo stigma della malattia mentale. 
Alcuni dipinti di Eleonora
Salute mentale. Club Itaca, Eleonora e i suoi dipinti 2
Cristiano e Eleonora, due soci, ci accompagnano a fare il giro della struttura e illustrano le sue regole. Per diventare soci del Club, bisogna innanzitutto accettare di collaborare alle attività che servono per portare avanti la struttura. Cristiano e Eleonora me le indicano su una lavagna, dove sono suddivise in quattro categorie principali: amministrazione, gestione del ristobar, manutenzione, orto e giardinaggio.
Eleonora e i suoi dipinti
Salute mentale. Club Itaca, Eleonora e i suoi dipinti 3
“Ogni giorno, alle 10 e alle 14,15 facciamo le riunioni in cui ci dividiamo le mansioni - spiega Cristiano - ciascuno sceglie l’attività che preferisce, cominciando a capire la propria inclinazione, un primo passo per poi professionalizzarsi”. “Solo successivamente si cominciano a guardare e esaminare le opportunità di lavoro”, aggiunge Eleonora indicando una bacheca con alcuni annunci, “l’importante, prima, è assumere una costanza, un percorso di riabilitazione”. Oggi sono 55 i soci di Club Itaca: 18 hanno già intrapreso un percorso di lavoro e mentre i restanti 37 frequentano il centro una media di 25 persone al giorno.
Una delle definizioni dei Club House è “palestra di lavoro” poiché tutte le attività vengono svolte nell’ottica di formare le persone alla disciplina che richiede un’occupazione fissa: “Ogni lavoro viene svolto in coppia per abituarci a operare in team”, spiega Eleonora. Inoltre, nella gestione del club, “non ci sono riunioni di staff ma tutti i soci sono coinvolti”. E le decisioni più importanti vengono prese all’unanimità in una riunione plenaria che si svolge nella sala convegni una volta al mese. Così ci si abitua nell'arte della mediazione, fondamentale in ogni tipo di lavoro.
Sono tre i tipi di lavoro che possono essere avviati nell’ambito di una Club House: Il primo è quello temporaneo, ovvero un tirocinio. La seconda modalità è il lavorosupportato attraverso il sistema job station,ovvero la possibilità di lavorare per aziende esterne ma dall'ufficio all'interno del Club: “Io per esempio faccio un'attività di telelavoro per Accenture”, spiega Cristiano. Poi c'è il lavoro indipendente, presso aziende esterne. “Per esempio un nostro amico, Marco, dopo sei mesi di frequenza di Club Itaca Roma ha trovato un lavoro come falegname – racconta Eleonora - e dopo tre anni in quell'azienda, sabato scorso ha spiccato il volo verso Londra, selezionato da un’impresa britannica”.
La prima Club House italiana è nata a Milano per iniziativa di alcuni familiari di persone con disagio mentale che hanno raccolto i fondi per finanziare, prima un numero di verde per l'aiuto di persone con disabilità mentale e le loro famiglie, e poi una struttura. A Roma Club Itaca – che ha un bilancio annuale di 230mila euro - è finanziata da grandi aziende private oltre ai soci e alle loro famiglie, che quando possono contribuiscono. Il Club ha contatti regolari con i centri di salute mentale e con gli ospedali, ma non vi sono finanziamenti pubblici. “Oltre ai tagli alla salute – spiega il direttore Valentini – c'è il fatto che nel settore pubblico è difficile accettare l'idea della riabilitazione psichiatrica senza medici”. Eppure è stato rilevato un effetto positivo della frequenza del Club sulla salute dei pazienti: “Le persone che sono qui da oltre sei mesi riducono l'assunzione dei farmaci - afferma Valentini - la "medicina dell'amore" sopperisce a quella chimica, poiché il fatto di essere benvoluti produce ormoni che compensano i mancati effetti del farmaco". (Ludovica Jona)

Salute mentale: quasi il 70% dei pazienti psichiatrici può "riprendersi" la vita

Il libro “Recovery", a cura di Antonio Maone e Barbara D'Avanzo (Raffaello Cortina) fa il punto sulle pratiche di inclusione attraverso lavoro e abitazione autonoma auspicate da Basaglia. “Per realizzarsi come persone non è necessaria la ‘guarigione’ completa”

Pubblicato su Redattore Sociale il 9 ottobre 2015
"Mentre alcuni terapeuti tradizionali potrebbero essere descritti come persone che adottano l'atteggiamento ‘io lo so, io te lo dico’, la posizione che io sostengo è ‘tu lo sai, dimmelo’”. Il volume "Recovery" curato dagli psichiatri Antonio Maone e Barbara D'Avanzo per Raffaello Cortina editore, si apre con una frase di John Bowbly sul lavoro degli operatori della salute mentale che curano chiedendo la partecipazione attiva del paziente.
La copertina del libro
Recovery - copertina libro
Il libro di Maone e D'Avanzo illustra e analizza - attraverso riferimenti agli innumerevoli studi e esperienze finora realizzati sul tema - la pratica della recovery, che si è affermata negli ultimi anni prima nel mondo anglosassone e recentemente si sta diffondendo anche in Italia. Il concetto di recovery, che si può tradurre con il termine "riprendersi" più che con "guarigione" sta proprio nel "tentare di restituire ciò che ogni psichiatra rischia di sottrarre nel suo entrare in scena nella vicenda esistenziale del paziente", ovvero "il diritto di scegliere, la possibilità di ricostruirsi una vita". Come evidenziato nella prefazione di Massimo Cosacchia, presidente della Wapr (World Association for Psychosocial Rehabilitation), i due curatori del volume hanno per la prima volta risposto all'esigenza di chiarificazione di un fenomeno che si è affermato negli ultimi anni e che ha "attraversato e nutrito le esperienze di deistituzionalizzazione", in attuazione, tra l'altro, del pensiero di Franco Basaglia.
Quasi il 70% dei pazienti psichiatrici può “riprendersi” la vita  Nel primo capitolo di “Recovery” Maone riassume gli studi realizzati nell'ultimo secolo sulla possibilità di cura delle persone che soffrono di disagio mentale: “Se analizziamo i dati per definire il numero di casi che, a distanza di molti anni dal primo ricovero non hanno più sintomi e non assumono farmaci e hanno al massimo una limitazione in una delle aree del funzionamento (lavoro, vita indipendente e relazioni sociali) – afferma - si ottengono percentuali che vanno dal 53 per cento al 68 per cento”.
Oltre la psichiatria: non è necessaria la guarigione completa  In più parti nel libro si afferma che per avere una vita soddisfacente e per realizzarsi come persone non è necessaria la "guarigione" completa dai sintomi della malattia mentale, ma la capacità di "riprendersi". Il secondo capitolo del volume, intitolato "La vita, oltre la psichiatria" e' scritto da Wilma Boevink una paziente psichiatrica che ha fatto del proprio male un oggetto di studio e che racconta, attraverso episodi della propria vita, sia la ghettizzazione sociale e l'umiliazione sottile determinata dall'istituzionalizzazione dei pazienti, sia la possibilità di una vita "nonostante la malattia" offerta da esperienze improntate alla recovery.
Rischio sfruttamento dei disoccupati “a rischio depressione”
Gli strumenti concreti attraverso i quali è possibile la riabilitazione psichiatrica secondo larecovery coincidono con gli aspetti determinanti dell'inclusione sociale: lavoro e vita indipendente. A questo tema è dedicato il capitolo 10 del volume, a cura di Angelo Fioritti e Antonio Maone, che analizza gli interventi di tipo sociosanitario che possono favorire l'inserimento lavorativo e opportunità di vita indipendente. Si evidenzia come questo tipo di percorso si contrapponga diametralmente alla pratica dell'istituzionalizzazione in strutture psichiatriche che tendono invece a escludere i pazienti dal proprio contesto sociale più di quanto abbia già fatto la malattia. Si cita, come norma che per l'Italia ha facilitato l'inserimento lavorativo per persone con disabilità psichica, la legge 68 del 1999. Viene tuttavia riportato il rischio di strumentalizzazione di questa legge, nel contesto di crisi economica: "Alcune amministrazioni hanno iniziato a utilizzare le borse lavoro per i cittadini disoccupati ‘a rischio depressione’ per servizi che loro stesse devono garantire, ottenendo indirettamente manodopera a basso costo".
L'abitazione supportata  Nel volume si parla di come - nonostante in Italia la chiusura dei manicomi seguita alla Legge Basaglia del 1978 - le persone con disabilità psichiatrica siano a rischio "re-istituzionalizzazione": "Strutture concepite come riabilitative e transitorie in vista della vita autonoma, tendono invece a divenire ‘case per la vita’”. Si vive in strutture psichiatriche perché si hanno sintomi di malattia mentale, ma - emerge dal libro - è vero anche il contrario. La soluzione suggerita per uscire dal circolo vizioso è "valutare separatamente bisogni abitativi e bisogni assistenziali". Nella pratica possono essere promossi progetti di abitazione indipendente supportata dagli stessi servizi di salute mentale che garantiscano, oltre all'assistenza sanitaria, anche la possibilità di avere uno spazio proprio, il diritto alla privacy e quello alla scelta della propria sistemazione abitativa. Si tratta di soluzioni - frutto di esperienze ancora sperimentali in Italia - apprezzate dai pazienti ma ancora spesso viste con sospetto da operatori della psichiatria e dagli stessi parenti dei malati.
Il cambiamento necessario nei servizi di salute mentale  Il "cambiamento organizzativo" dei servizi di salute mentale necessario per promuovere larecovery è al centro del nono capitolo del volume, scritto da Geoff Sheperd. Il testo contiene indicazioni concrete per gli operatori di salute mentale sintetizzate in 10 "sfide organizzative" elaborate nell'ambito del modello anglosassone dove le pratiche ispirate alla recovery sono già molto diffuse. In particolare si auspica una relazione terapeutica che "promuova la collaborazione e la speranza" e che sostenga "progetti e sogni per il futuro" e un focus "sui bisogni degli utenti più che su quelli dei servizi". (Ludovica Jona)