martedì 31 marzo 2009

LA TRAGEDIA LIBIA

Quattro imbarcazioni con a bordo centinaia di migranti, dirette dalla Libia verso l’Italia, sembrano essere naufragate. Pare ormai certo che almeno due delle imbarcazioni siano affondate.

I guardacoste di Tripoli stanno ancora conducendo ricerche in mare.Finora, secondo il ministero dell’Interno libico, almeno 23 persone sono state recuperate ancora in vita, mentre altre 21 sono state ripescate troppo tardi.Nonostante il ripetersi di tragedie come questa, il flusso di disperati che cercano di attraversare il Mediterraneo non accenna a rallentare.
(Fonte: Peacereporter)

Notizia che sa di tragedia annunciata, mentre il ministro Maroni afferma: "Dal 15 aprile, il problema sarà risolto: niente più sbarchi di clandestini!" A metà del mese prossimo entrerà infatti in vigore l'accordo con la Libia sul pattugliamento congiunto della sponda sud del mediterraneo. Una data imminente, forse la causa dell'affrettata decisione di partire per tanti barconi.

La giusta contro risposta alla tragedia è nel comunicato dell'associazione Centro Astalli: "C’è un’umanità che chiede all’Europa aiuto e protezione da guerre e sanguinose dittature alla quale non si può restare indifferenti. È indispensabile creare un canale umanitario, sicuro e fuori dai traffici clandestini che permetta di esercitare il diritto d’asilo. Ancora una volta le politiche cosiddette di sicurezza messe in atto da molti governi europei tra cui quello italiano risultano inefficaci nel gestire un fenomeno inarrestabile come quello delle migrazioni forzate".

Per compendere meglio cosa potrà significare l'accordo (che comprende anche sostegno ai centri di detenzione per migranti libici), ecco il pdf del rapporto sulle carceri del paese nord africano, pubblicato da Fortresseurope:

RAPPORTO_LIBIA

domenica 29 marzo 2009

LA ROMA DI ALEMANNO IN TRE LUOGHI

Qualche riflessione su come è cambiata la Capitale, a quasi un anno dall'arrivo del nuovo sindaco.

I MARCIAPIEDI

"Ma dove sono finiti gli ambulanti?" Mi chiedeva qualche giorno fa, un'amica di ritorno da un periodo di studio in un'altra città italiana. Già, mi sono ricordata, i senegalesi con le borse e i cd, non si vedono quasi più tra i marciapiedi romani. Nel passare dell'inverno, io neanche ci avevo fatto caso che era cambiato il panorama cittadino. Ma lei, di ritorno dopo mesi, ha notato la visibile differenza. I senegalesi e i bengalesi sono svegli e sanno organizzarsi: è vero che in alcune zone sono rimasti, ma per farli semi scomparire, le forze dell'ordine devono avergli fatto parecchia paura.

BUS E METRO
Da due settimane sono giunti gruppi di controllori: io mi sono trovata alle 21,30 di sera a viaggiare sul un bus, da sola, con 3 addetti alla verifica del titolo di viaggio. Come promotrice dell'uso dei mezzi pubblici, sono favorevole a che la gente si abitui a comprare il biglietto. Ma quella presenza massiva a quell'ora, quel modo vagamente aggressivo, di chi è in gruppo, mi ha messo un po' d'inquietudine. Mi sono poi ricordata di padre Giovanni, presidente del centro Astalli (per l'accoglienza e l'assistenza ai rifugiati politici), che nell'ufficio legale dell'associazione mi ha mostrato 3-4 sacchi pieni di multe, prese dai richiedenti asilo politico (che hanno la residenza al centro astalli e per 6 mesi dalla presentazione della domanda di protezione internazionale non possono lavorare). Piuttosto che restare fermi per 6 mesi dentro al centro d'accoglienza, i rifugiati avevano osato prendere l'autobus senza biglietto e, non avendo dallo stato alcun sussidio contante, preso la multa (anche perchè l'atac non ha mai accolto la proposta di Padre Giovanni di fare una convenzione con il centro Astalli). Chissà quanti diventeranno ora i sacchi delle multe, nell'ufficio di padre Giovanni.

I "RITROVI"
Si è finalmente ripopolata la via pedonale del Pigneto. Vinerie, kebab, bar aperti fino a tardi e viavai "alternativo". Ma questa primavera c'è una sorpresina in più: una fiammante auto della municipale parcheggiata in bella vista proprio sulla via pedonale, che è il principale luogo di ritrovo di giovani vagamente fricchettoni della Capitale. Mi si dirà che il Pigneto, con l'alta percentuale di abitanti immigrati, puo' essere luogo di scontri o aggressioni, come quella a un negozio bengalese qualche mese fa. Sarebbe un pensiero carino mettere le forze dell'ordine a tutelare gli immigrati in un momento come questo. Ma non credo proprio sia il caso: soprattutto nella via pedonale non ci sono bottegucce etniche, ma solo piazzole di svago nelle quali si girava al massimo qualche innocente canna.

ORDINE E LEGGE (E INQUIETUDINE)
Insomma, guardie ovunque e per tutti. Il comune ha approvato (primi di marzo) un regolamento che limita il percorso delle manifestazioni: "per conciliare l'esercizio delle libertà democratiche, con la vivibilità della città". C'è un aspetto più ordinato delle cose, questo si. Ma dietro? Io non mi sento affatto sicura. Perchè percepisco una strana sensazione, mai provata. L'impressione è che senza farcene accorgere, ci stanno cominciando a nascondere un po' di cose. Un po' di realtà spiacevoli.

PS
Ecco il link ad un interessante inchiesta dell'Unità intitolata "LO SCERIFFO DI ROMA". Ovvero il generale Mario Mori, prefetto in pensione, già comandante del Sisde, il servizio segreto civile, e del Ros dei carabinieri, da settembre a capo dell'«Ufficio extradipartimentale Coordinamento delle Politiche per la Sicurezza» capitolino. Nomina ottenuta poco dopo il rinvio a giudizio per favoreggiamento nei confronti del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. L'inchiesta mostra l'assoluta mancanza di trasparenza delle attività di tale ufficio, nonchè delle procedure attuate per formare una struttura amministrativa cui si erano opposti i presidenti di regione e provincia, nonchè il prefetto di Roma Carlo Mosca.

Buona lettura:
http://www.unita.it/news/80534/lo_sceriffo_di_roma

lunedì 23 marzo 2009

CAFFARELLA: PERCHE' LOYOS IL BIONDINO CONFESSO'?


In generale non mi piace pubblicare su un blog personale articoli di altri. Ma alcuni post del giornalista Gennaro Carotenuto (blog "Giornalismo Partecipativo") sono troppo giusti, originali e stimolanti, nella loro linearità. Mi vien da dire che l'autore ha il potere di farci rendere conto di cose che accadono davanti agli occhi. Ma leggete e commentate!

di Gennaro Carotenuto, sabato 21 marzo 2009

Chiunque con un minimo di sale in zucca e un po’ di onestà intellettuale si domanda se è giusto dedicare così tante prime pagine ad un solo stupro da cinque settimane a questa parte e zero righe, o piccole brevi, alle decine o centinaia di altre ragazze e donne stuprate in Italia in queste settimane.

Su questo piano è evidente che sono sempre necessarie considerazioni su due aspetti: 1) l’uso politico dei romeni che stuprano una minorenne italiana, perfetti per tener desto l’allarme sicurezza; 2) la spettacolarizzazione del caso, ovvero l’uscita dal contesto informativo per entrare in un contesto seriale per il quale si segue quella storia a puntate fino alla soluzione del giallo ma non si segue un’altra storia analoga che va in onda su di un altro canale.

Nel caso della Caffarella però è a questo punto necessario esprimere un dubbio terribile che se confermato sarebbe un’onta per un paese civile e uno stato di diritto.

Perché Alexandru Loyos, al secolo “il biondino”, confessò uno stupro che sicuramente non aveva commesso per ritrattare dopo poche ore? Quando la prova del DNA testimoniò che i due presunti mostri, Loyos e Karol Racz (faccia da pugile) erano innocenti (almeno dallo stupro) il primo fu accusato di essersi autocalunniato per proteggere i veri autori dello stupro descritti come potenti e minacciosi.

Adesso sappiamo (sappiamo?) che gli autori dello stupro erano altri due balordi, due giovanissimi immigrati disgraziati come il pugile e il biondino, la qual cosa fa cadere anche la pallida tesi dell’autocalunnia. Loyos e Racz restano ancora in galera e non si sa più bene perché. Quello che non vale per i presunti colpevoli (il carcere preventivo) vale invece per sicuri innocenti?

Ma soprattutto: perché Loyos confessò lo stupro? Cosa fece così paura a quello che oramai è a tutti gli effetti un’altra vittima di questa vicenda oltre alla quattordicenne stuprata? Molti temono che sia successo qualcosa di terribile non solo nel Parco della Caffarella ma anche nel Commissariato dove fu cucinata una verità ufficiale buona per i media e la politica, ma che non ha retto a nessuna verifica e che non era degna di un paese civile e di uno stato di diritto. Serviva urgentemente un mostro, ma forse il mostro in quel Commissariato non era Loyos.

Leggiamo la denuncia del gruppo Everyone in merito.

domenica 22 marzo 2009

CORRERE, DI SERA A PRIMAVERA

Con la primavera riprendo quest'appuntamento meraviglioso. Ogni fine settimana, se non vado fuori Roma, mi obbligo a 40 minuti di corsa al parco. L'orario più bello, per me è il tardo pomeriggio preludio alla sera che scende piano piano. Così, mentre corri, osservi la natura che intorno cambia i colori, i rumori. Ci sono ancora gruppetti di ragazzi, mamme con passeggini, ma radi ormai, permettono di ascoltare e vedere. I bagliori gialli dei lampioni sono miriadi di imitazioni del sole al tramonto, che dipingono le cortecce dei pini. I tronchi, i rami, sono sagome sempre più nere che disegnano armoniche linee, incorniciando prati, fronde, foglie di ogni forma. Verde su verde e qua e là qualche spruzzo di margherite. Che il traguardo del 21 marzo è passato. Ma la cosa più bella è il vento che sferza la faccia, mentre la pelle, abituata al calore da schermo del pc, gode di una quasi dimenticata sensazione di natura. Basta un parco! Pensavo di non resistere a lungo, nella corsa questa sera, invece le mie gambe andavano e andavano, coscienti di fare un regalo a sè stesse e a tutto il corpo. Un'energia che non faceva sentire la stanchezza, ma quasi ne gioiva, come corressi dietro a tutti i desideri irrealizzati, le mete stabilite, i sogni ancor troppo lontani. Ma quell'inseguimento, che un doloretto all'ernia ha potuto solo rallentare, spazzava via tutte le arrabbiature soffocate, tutti i dispiaceri interiorizzati, tutti i pensieri di troppo..

sabato 21 marzo 2009

DALLA SPAGNA RICETTE SEMPLICI, CONTRO IL RAZZISMO

Sentivo alla trasmissione "prima pagina" di radioTre, la scorsa settimana condotta da Tito Boeri (coordinatore del sito di informazione lavoce.info), che in Spagna i media non sono autorizzati a dare la nazionalità dei responsabili dei crimini di cui parlano. I paesi di provenienza dei criminali, reato per reato, vengono fatti conoscere solo attraverso le statistiche ufficiali. Non si tratta quindi di censura, ma di un metodo d'informazione che che dà ai lettori-ascoltatori, una fotografia reale dei fatti. Secondo Boeri, questa semplice regola ha determinato nella penisona iberica una diminuzione esponenziale di episodi razzisti. Soprattutto nei confronti dei Rom, che in Spagna sono molti di più che in Italia (circa 700.000 contro i nostri 150.000). Dello straordinario (in confronto all'Italia) grado di integrazione dei rom spagnoli ha parlato recentemente Presadiretta, il programma d'inchiesta condotto da Riccardo Iacona (le 6 puntate sono in streaming su www.presadiretta.rai.it). A vedere il documentario, le ricette della Spagna contro discriminazione e criminalità sembrano semplici: uno speciale reparto delle forze dell'ordine chiamato "unità di polizia di convivenza", intermediazione per evitare la speculazione negli affitti delle case ai rom (che favorisce gli accampamenti), programmi di inserimento al lavoro seri ed efficaci (dal 2000, 36.000 persone rom seguite e 25.000 contratti di lavoro stipulati): in questo modo sono stati spesi i contributi dell'Unione Europea, ma anche dello Stato e delle comunità autonome. E' è un paese che ha due deputati rom e centinaia di giovani sinti e rom laureati. "E' questo che deve fare l'Italia, ma non è qualcosa che si realizza dal giorno alla notte!", dice il primo deputato rom spagnolo, ora eletto anche al parlamento europeo.

venerdì 20 marzo 2009

SE CI SALVA IL PEDIATRA DELLA MUSSOLINI

"La lettura attenta del testo (comma 5 del decreto sicurezza) dice che chiunque eserciti un incarico pubblico dovrà denunciare l'immigrato clandestino che si rivolgerà a lui. L'incaricato di pubblico servizio può essere il medico, ma anche l'insegnante. E che facciamo? Pretendiamo che i bambini vadano a scuola e poi denunciamo i loro genitori che sono clandestini? Questa è una trappola."(Alessandra Mussolini intervistata da L'Unità ieri)

Due giorni fa, un appello della Mussolini per chiedere al presidente del consiglio "indispensabili correzioni ad una norma inaccettabile", ha raccolto in poche ore le firme di 170 deputati del Pdl.
La stessa norma che è stata approvata dal Senato qualche settimana fa (insieme ad altri articoli vergogna come il divieto di sposare immigrati irregolari), senza che né chiesa, né associazioni, né opposizione, siano riusciti a smuovere una virgola. Senza che la Mussolini, presidente della Commissione Infanzia, avesse notato il comma 5 del decreto sicurezza e le sue conseguenze. Ma la parlamentare in questi giorni ha portato il figlio piccolo dal pediatra. Che gli ha raccontato del crollo delle vaccinazioni da quando si parla del pacchetto sicurezza. Di qui l'illuminazione: "Mi sono fatta spiegare ed ecco la lettera", ha detto all'Unità.

Non serviva lei per capire che alcuni diritti, in primo luogo i diritti dei bambini, non hanno colore politico. Ma per farlo capire, avevamo bisogno del suo pediatra.

mercoledì 18 marzo 2009

L'ITALIA ACCANTO: MOSTRA FOTOGRAFICA A PIAZZA VITTORIO


Indiani, polacchi, cinesi. Ecuadoregni e bengalesi. Che lavorano, celebrano i loro riti, semplicemente vivono. Senza far rumore, nè diventare "notizia". E' questa "L'ITALIA ACCANTO" che il mio amico, il giornalista Carlo Moccaldi, racconta da anni con parole e immagini. Dedicando al fenomeno migratorio l'attenzione e l'amore di uno studioso, al posto della superficialità con cui generalmente gli si approccia il cronista. Per questo, pur non avendo ancora visto le 42 fotografie della mostra che sarà inaugurata domani e durerà fino a domenica 22 marzo, consiglio di visitarla. Per godersi l'esposizione poi, non sono necessarie file, biglietti e lunghe attese: basta una passeggiata lungo i portici di Piazza Vittorio. E, a sorpresa, si vedrà rappresentata l'umanità che vi scorre intorno.

martedì 17 marzo 2009

COSA TEMERE? (L'AMBULATORIO) CLANDESTINO


Dunque, come è andato a Roma questo "Noi non segnaliamo day"? Al presidio 9-11 di mattina, prevedibilmente pochi con le bandiere con il logo dell'evento (mi han detto, perchè neanche io son riuscita a passare). Molti media però alla conferenza stampa, dove alla voce dei medici promotori della campagna, si è aggiunta quella del vicepresidente del consiglio regionale del Lazio, Esperino Montino, nel chiedere al parlamento di non votare il provvedimento che permette agli operatori sanitari di denunciare gli stranieri irregolari. E' stata anche distribuita la fotocopia dell'ordine del giorno con cui il consiglio regionale si impegna, nel caso il provvedimento diventi legge, a promuovere e tutelare l'obiezione di coscienza nelle strutture sanitarie del territorio. Seguendo l'esempio di molte altre regioni italiane (prima è stata la Puglia di Vendola), anche l'organo rappresentativo del Lazio conferma l'inutilità e l'ideologismo del contestato comma 5 del decreto sicurezza.

Per sostenere la fondatezza della sua posizione la regione ha reso noti dei dati sull'utilizzo del sistema sanitario da parte degli Stp (Stranieri Temporaneamente Presenti), come vengono registrati gli immigrati irregolari.

- nel 2007 solo 10.012 Stp, corrispondenti allo 0,93 per cento dei beneficiari totali, hanno utilizzato il servizio sanitario regionale.

- tra questi, la prima causa di ricovero per gli uomini (30 per cento) è costituita dai traumatismi (quindi spesso causati da incidenti sul lavoro, spesso provocati da condizioni lavorative insicure, spesso rese possibili da datori di lavoro italiani..)

- il 50 per cento delle donne Stp sono invece state assistite per cure relative alla salute riproduttiva.

- il 70 per cento dei ricoveri degli Stp è effettuato in urgenza.

Dati che escludono l'abuso delle strutture sanitarie da parte degli stranieri irregolari, di cui ha tanto parlato la lega.

“Si possono ipotizzare 15.000 aborti clandestini annui”, ha affermato Aldo Morrone, direttore generale dell'Istituto Nazionale per la Salute dei Migranti.

Foad Aodi, presidente dell'Amsi (Associazione Medici di origine Straniera in Italia) ha raccontato di un ambulatorio clandestino, creato da un immigrato latinoamericano per curare connazionali irregolari.

Nella sua voce e negli sguardi delle decine di medici con esperienza e di giovani specializzandi presenti, la preoccupazione per la nascita di un circuito sanitario clandestino. Quello si, sarà pericoloso. Per tutti.

lunedì 16 marzo 2009

NOI NON SEGNALIAMO DAY

Suona come il l'estremo appello della società italiana che possa definirsi “civile”. Ultima richiesta di presa di coscienza alla popolazione, ma anche grande gesto di vitalità di importanti e rappresentative organizzazioni umanitarie e professionali. Sarà tutte questo cose, la giornata di mobilitazione “Noi non segnaliamo day”, promossa per domani 17 marzo in 20 città italiane da Medici senza frontiere, Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), Associazione studi giuridici sull'immigrazione e Osservatorio italiano di salute globale. Organizzazioni di medici dalle competenze diverse si sono unite per chiedere alla Camera dei deputati di non approvare definitivamente il provvedimento di legge, già passato al Senato, che permette ai medici di denunciare gli immigrati irregolari che si rivolgono loro.

Pochi giorni fa, il 12 marzo, in occasione della visita in Italia (per una missione di monitoraggio a Lampedusa) del commissario europeo a Giustizia Libertà e Sicurezza Jaques Barrot, una delegazione della Simm l'ha incontrato per sollecitare un suo intervento per l'abolizione della norma, nei confronti dell’on. Maroni che avrebbe incontrato successivamente. Due i punti sottolineati dai medici:

  • negazione di un diritto da 13 anni ben consolidato in Italia;

  • paura da parte dell’immigrato irregolare a rivolgersi alle strutture pubbliche con un calo degli accessi già verificatosi e conseguente problema di salute pubblica.

E’ stato sottolineato, infine, come il discorso non è ideologico ma sanitario e di tutela di un diritto umano. Dalla Simm affermano che la reazione di Barrot è sembrata favorevole alle istanze presentate.

Come spesso nelle questioni riguardanti le minoranze, i medici hanno cercato appoggio in quell'unica istituzione che, anche se recentemente sempre di meno, è stato finora l'unico ostacolo alla deriva meschinamente indifferente, tristemente razzista, del nostro paese. Dalla mobilitazione di domani, si attende stupefacente smentita.

domenica 15 marzo 2009

UNA CRISI DIMENTICATA, LA MIGLIORE ADOZIONE A DISTANZA

In principio erano solo i bambini e le bambine carini ma poveri di Africa, America Latina e Asia, che sorridevano nelle fotografie sui comodini dei padrini-sostenitori del "nord del mondo". Poi, il grande successo di questa forma di sostegno economico ha portato molte ong ad adottare nuove formule: "adotta una madre", "adotta un nonno", "adotta un villaggio".. Non che non siano utili i fondi raccolti così, soprattutto quando ad essere adottato è un progetto di formazione (che evita di trasmettere ai bambini il messaggio che riceveranno soldi in quanto poveri). Ma la forma di sostegno che credo più importante oggi è quella provocatoriamente proposta da Medici Senza Frontiere (Msf) con la campagna "Adotta una crisi dimenticata". La campagna parte da un rapporto, il quinto dell'organizzazione umanitaria sul tema, che contiene una "Top Ten" delle crisi dimenticate dai media nel 2008. Da questa vediamo che le crisi citate non sono proprio sconosciute. Di una buona metà (Zimbabwe, Myanmar, Congo orientale, Sudan e Somalia), se ne è anche parlato molto, tuttavia, solo per alcuni giorni, quelli chiamati "l'apice della crisi". Poi più nulla. Perchè anche se i morti, le battaglie, le epidemie continuano e si aggravano, dopo quel tot di tempo non fanno più notizia. A noi però, da casa, pare che le cose si stiano aggiustando e ci tranquillizziamo, non ci pensiamo più. Poi vi sono le crisi di cui si è parlato, ma non con attenzione alle vittime, bensì alle polemiche che hanno suscitato inItalia o negli Usa: quella del Pakistan nord occidentale e quella dei civili irakeni. Infine c'è il tipo di crisi dimenticata più emblematica di tutte: quella di cui si parla perchè c'è un rapito italiano di mezzo, vedi Somalia con le due suore. A confermarlo, proprio a due giorni dalla presentazione del rapporto, c'è stato il rapimento in Sudan proprio dell'operatore umanitario di Msf, fortunatamente subito rilasciato. Appunto, il Sudan era un'altra delle peggiori crisi citate nella top ten del rapporto. Msf scrive che la campagna "Adotta una crisi dimenticata" coinvolgerà i mezzi di comunicazione (soprattutto i tg, Rai e Mediaset, che fanno registrare un costante calo dell'attenzione alle situazioni umanitarie: dal 6 % del 2006 al 10 % del 2008), ma anche le scuole di giornalismo e le università. Durerà dodici mesi, fino a marzo del 2010, quando MSF, in occasione del prossimo rapporto sulle crisi dimenticate, presenterà i risultati ottenuti. Poche speranze, visti i tempi che corrono. Ma importante è che l'appello è stato lanciato.

sabato 14 marzo 2009

Rifugiati, di guerra in guerra

“Perchè Maws, dopo 10 anni di arresti illegali e torture, hai deciso di continuare l'attività politica?” Il giovane ingegnere africano, costretto a lasciare un'esistenza agiata, patria e famiglia, per un posto in un centro di accoglienza italiano e quotidiane angosce per un permesso di soggiorno e un lavoro, non esita: “Quando credi in qualcosa, non puoi abbandonarlo solo per paura. Se fai il giusto, Dio ti dà la forza per affrontare tutto”. Parole che suonano da film di altri tempi, ma il ragazzo non sta recitando. Semplicemente, appartiene a un mondo lontano.

Nel 2008 in Italia sono stati oltre 30.000 i richiedenti asilo politico come Maws. Uomini, donne e minorenni, provenienti in gran parte dall’Africa subsahariana, ma anche, in misura crescente Paesi asiatici, in particolare dall’Afghanistan. Abbandonano le proprie vite e famiglie a causa di conflitti politici, etnici o religiosi. Arrivano stipati in un'imbarcazione, legati sotto un camion o su un aereo. Le loro storie sono diversissime ma accomunate da conflitti, imprigionamenti illegali e torture. E nuove battaglie nel Paese d'accoglienza: prima per il riconoscimento dello status di rifugiato e poi per l'integrazione sociale. Si inizia con il colloquio davanti a una delle sette Commissioni Territoriali per la valutazione della domanda di protezione internazionale. Quindici minuti per illustrare vicende politiche e personali che hanno portato alla fuga e 2-3 mesi d'attesa per la risposta. Che significherà l'inizio di un'altra vita o quello di una nuova fuga. Secondo la convenzione di Ginevra del 1951, l'asilo politico viene accordato al richiedente che fugge da guerre o dittature ed è individualmente perseguitato. La protezione sussidiaria spetta invece a chi rischierebbe un danno grave tornando nel proprio Paese. Il diniego è il rifiuto della protezione, ma la commissione può contestualmente richiedere al questore il rilascio di un “permesso di soggiorno per motivi umanitari”. Nel 2007 su 13.509 domande esaminate, solo il 10,42 per cento ha ottenuto l'asilo o la protezione sussidiaria, il 36,33 per cento sono state rifiutate senza alcuna protezione e il 46,77 per cento ha avuto un diniego con protezione umanitaria.Dalla richiesta di asilo, per sei mesi i richiedenti non possono lavorare. Per questo la direttiva 2003/9/CE dell’Unione Europea indica le norme minime per la loro accoglienza. Compito esplicato solo parzialmente dall'Italia, come risulta dall'ultimo rapporto del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar): nel 2007 sono state 6.284 le persone accolte nei 3.041 posti dello Sprar. Gli oltre 8000 rimasti fuori, sono stati accolti in strutture di associazioni umanitarie o costretti alla strada.

La migrazione forzata: Maws, passione e politica
Al chiedergli cosa lo ha condotto in Italia, il suo sguardo profondo si fa serio e le parole si animano di una convinzione che non lascia posto alla rassegnazione dell'esilio. Maws viene dal Togo, dove l'attuale capo dello stato è il figlio di quel Gnassingbé Eyadema che ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 1967, facendo uccidere Sylvanus Olympio, il primo presidente eletto dopo l'indipendenza. Una dittatura durata decenni grazie a “violazioni dei diritti umani da parte dei militari” e ”l'appoggio fornito dalla Francia al governo di Eyadema”, come ha sempre denunciato Amnesty International. La domanda d'asilo di Maws documenta come a diciannove anni sia stato imprigionato illegalmente e torturato per ottenere i nomi di membri del partito d'opposizione, l'Ufc (Unione delle Forze per il Cambiamento), di cui fa parte. Tre mesi di reclusione in una piccola cella con decine di prigionieri, sigarette spente sul viso e sul corpo e corde che lo hanno immobilizzato e fatto trainare da un camion. Ferite profonde sul corpo e incancellabili nell'anima, ma una volta liberato, Maws ha rafforzato il suo attivismo politico, alternando la vita di universitario con viaggi nelle aree rurali del Togo, per diffondere le idee del partito. Per tre volte è stato di nuovo fermato dai militari: prima avvertito, poi picchiato ferocemente, quindi minacciato, questa volta di morte. Quando i militari sono venuti nuovamente a cercarlo a casa, è stato il partito a mandarlo via: prima in Ghana e poi, per maggiore sicurezza, in Italia, con un aereo diretto a Roma – Fiumicino. Comincia così l'esistenza da profugo che non avrebbe mai immaginato, tra notti in strada, l'incontro con associazioni e centri di prima accoglienza. E' proprio in un centro che poco dopo il suo arrivo Maws fa un incontro inaspettato: Patrik un ragazzo del suo quartiere che ultimamente non frequentava perché come poliziotto, lavorava per il governo. Patrik gli racconta che le autorità avevano deciso di affidargli il compito di far sparire i corpi degli oppositori politici uccisi, portandoli nella foresta, in pasto ai felini. Un compito che considerava intollerabile ma, conoscendo il segreto, se lo rifiutava sarebbe stato ucciso. Così anche per lui, l'unica scelta possibile è diventata la fuga. Allontanati in patria, Maws e Patrik si sono riuniti in un paese straniero, dopo aver compiuto lo stesso sacrificio estremo, di libertà.

L'accoglienza: tra irregolarità e solidarietà
L'avventura italiana di Maws è il percorso (a ostacoli) verso il compimento dell'articolo 10 della Costituzione che recita “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'esercizio delle libertà democratiche, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica”. Dopo aver presentato la domanda d'asilo alla Commissione Territoriale competente, il giovane è stato convocato per l'audizione, ma invece dei quattro commissari previsti per legge (rappresentanti di Prefettura, Polizia di Stato, Comune e Alto Commisariato Onu per i Rifugiati) si è trovato di fronte a un solo membro giudicante. Un'irregolarità che risulta frequente: hanno riferito di essere stati ascoltati da un solo commissario, il 31,3 per cento dei diniegati, intervistati per la ricerca “Presenze trasparenti”, realizzata nel 2007 dai Centri di Servizio per il Volontariato nel Lazio (Cesv). Maws racconta inoltre, che il commissario parlava continuamente al telefonino, interrompendolo spesso. Il diniego pervenuto al ragazzo due mesi dopo, motiva “gli avvenimenti raccontati non appaiono credibili”, senza considerare il certificato dell'associazione “Medici contro la Tortura”, secondo cui le cicatrici che Maws ha sul corpo sono “inequivocabilmente causate da atti violenti compiuti sulla persona in condizioni di non difendersi”. Grazie alla disponibilità di un giovane avvocato segnalato dall'associazione Centro Astalli, Maws ha fatto ricorso. Ma nell'attesa della risposta, la questura di Roma si rifiuta di rinnovargli il permesso di soggiorno: non può lavorare se non in nero e i responsabili del centro che lo accoglie rischiano sanzioni penali. E' diventato un “irregolare”, a causa di irregolarità altrui. E le cose potrebbero andare peggio in futuro: l'attuale proposta di legge sull'asilo prevede limitazioni ai ricorsi dei richiedenti rifiutati in prima istanza e la possibilità di immediata espulsione nel Paese da cui sono fuggiti. Mentre le associazioni impegnate a fianco dei rifugiati, riunite nel Tavolo Asilo, lavorano per modificare tale testo e chiedono una legge organica in materia (l’Italia è l’unico Paese europeo a esserne privo), Maws aspetta: un permesso di soggiorno, di lavoro e di vita.

L'integrazione: Mary, lotta ai pregiudizi e nostalgia
“Mary preparati, stasera nel tuo piano arrivano settanta donne con bambini da Lampedusa”. L'operatrice del centro di accoglienza comunica le novità dovute all'emergenza sbarchi estiva e la giovane rifugiata ripensa al giorno del suo arrivo in Italia: “Volevo tornare indietro, non sopportavo l'idea di abbandonare il mio Paese”. Mary, 35 anni, della Costa d'Avorio, ha un volto curato e luminoso che si adombra quando, parlando del fratello ambasciatore o del marito, aggiunge che sono morti, “uccisi”. Parla del suo Paese “pieno di ricchezze”, tanto da mandare aiuti alle altre nazioni africane e accogliere 8 milioni di immigrati, fino allo scoppio della guerra civile nel 2002. La guerra tra le truppe del governo di Laurent Gbagbo e i ribelli delle Forze Nuove ha provocato oltre 3000 morti e, come sottolinea il rapporto 2007 di Amnesty International, “particolare violenza contro le donne, da entrambe le fazioni”. Mary dice di aver resistito anni, sperando che le truppe francesi e i 10.000 caschi blu della missione dell'Onu portassero stabilità, ma che “troppi interessi economici, come il petrolio nel golfo di Guinea”, hanno prevalso sul benessere della popolazione.

La giovane ha ottenuto l'asilo politico in Italia, grazie ai documenti rilasciati dai soldati francesi che l'hanno liberata dal carcere. Racconta di aver ricevuto molto aiuto e affetto nel centro dove è stata accolta, “ma fuori, in strada, o sull'autobus c'è gente che ti guarda con disprezzo e arriva a dirti di tornare al tuo Paese: molti italiani non sanno cosa vuol dire essere rifugiato”. Oggi la sua più grande preoccupazione è trovare un lavoro, ma il riconoscimento del diploma da infermiera, che deve passare per la rappresentanza diplomatica italiana in Costa d'Avorio, tarda ad arrivare. Così, mentre lavora part-time in una casa privata, dà una mano ad altri rifugiati, soprattutto donne con bambini. In attesa di ricostruirsi una vita e “fare qualcosa, anche da qui, per il mio Paese”.

Il viaggio di Abdul e la Convenzione di Dublino
Quando arriva all'intervista, fisico fragile e sguardo timido, non lascia immaginare l'avventuroso viaggio durato anni, che lo ha portato in Italia. Iniziato quando la madre, sola perché il padre era andato in guerra, lo affidò undicenne a una famiglia amica in partenza per il Pakistan. “Mi hanno trattato come un figlio, ma quando sono finiti i soldi ho dovuto trovare un lavoro”, racconta Abdul che a dodici anni, con altri coetanei, ha cominciato a scavare in una miniera pakistana. Per sei mesi, fino a quando una ferita sulla mano lo ha costretto lasciare il lavoro e il paese. “Ho trovato dei passaggi in macchina, fino a Teheran – dice – c'è solidarietà dalle mie parti, mica come in Italia, dove pensano che vuoi solo rubargli..”. A Teheran, con altri piccoli migranti come lui lavora come muratore, “ma quando è uscita una legge per l'espulsione degli immigrati illegali, con alcuni compagni siamo dovuti fuggire”. Dieci giorni di cammino, per attraversare il confine con la Turchia, accompagnati da membri della locale mafia, “come quella italiana, solo che lì se ti uccidono non interessa a nessuno!”. Quindi il pericolosissimo passaggio in mare per la Grecia: “Con altre 20 persone su un gommone bucato, dovevo tappare il foro con un dito, non pensavo che ce l'avrei fatta. Ma non avevo altra scelta”. Arrivato in Grecia viene rinchiuso tre mesi in un Centro di Permanenza Temporanea, in attesa di identificazione: “Con africani e altri afgani, mangiavamo un pezzo di pane, una volta al giorno”. Rilasciato con l'ordine di andarsene dal paese entro 20 giorni, Abdul rimane sei mesi facendo la raccolta dei pomodori, delle mele e delle arance, fino a mettere da parte i soldi per quella che spera essere l'ultima traversata. Incastrato sotto un camion diretto a Venezia: “Basta una disattenzione e sei morto”. Ma alla frontiera, la polizia guarda sotto il camion e lo rimanda indietro, “nonostante – specifica l'operatrice dell'associazione che ora lo segue - le normative internazionali impongano di dare ad ogni straniero la possibilità di richiedere asilo”. La Grecia è riconosciuta come il Paese europeo più severo con i rifugiati: per questo pochi mesi dopo il ragazzo ritenta l'impresa, questa volta dentro alcune casse caricate sul camion, ma sviene e si risveglia in un ospedale tedesco. In Germania le autorità, ricostruito dalle impronte digitali il suo viaggio, preparano il rientro di Abdul in Grecia. Secondo la Convenzione di Dublino infatti, è competente a esaminare la domanda di asilo il primo paese europeo cui giunge il richiedente. Allora Abdul si rimette su un camion, con cui arriva in Finlandia dove, in quanto minorenne, viene affidato ad una famiglia. In quella casa trova calore, affetto e tregua ai vagabondaggi. Ma l'angoscia che ha dentro e la paura non si placano: sente che questa situazione non può durare a lungo. E' per questo che fugge di nuovo. In Germania dove, da clandestino, compie 18 anni. Sta male, chiama la famiglia finlandese, che decide di adottarlo quando però è troppo tardi, perché lui ormai è maggiorenne. L'ultimo biglietto acquistato da Abdul lo porta a Roma, stazione Ostiense. E' infatti alla tendopoli del terminal di piazzale dei Partigiani, che da anni sono accampati molti afgani, un gran numero dei quali minorenni, con storie simili a quella di Abdul.

Il futuro: tutelare i minori richiedenti asilo
A Roma il ragazzo frequenta la mensa della Caritas dove conosce associazioni specializzate nell'assistenza legale ai richiedenti asilo. Scopre che le sue fughe sono durate più dei 18 mesi entro i quali le autorità dei paesi membri della convenzione di Dublino, avrebbero potuto rimandarlo in Grecia. E' così che ha potuto avviare la pratica per ottenere la protezione umanitaria. Ha poi ricercato la sua famiglia in Afghanistan, scoprendo che il padre è tornato dalla guerra ma la madre è morta. E’ anche tornato in contatto con la sua “famiglia europea” in Finlandia: “persone anziane, che non possono viaggiare – dice – ma appena avrò il permesso di soggiorno qui, andrò a trovarle io”. Ora ha finalmente iniziato a pensare a un futuro diverso dalla fuga, vuole lavorare in una pizzeria e magari un giorno, aprirne una sua.

Secondo i dati raccolti dal Programma Integra, i minori richiedenti asilo in Italia sono aumentati negli ultimi tre anni del 146 per cento, di cui il 70 per cento viene dall'Afghanistan. Altri vengono da Eritrea, Etiopia e Irak. Giovani vite abituate al rifiuto e sempre più a rischio, dopo che lo scorso giugno il Parlamento Europeo ha approvato la direttiva sui rimpatri degli extracomunitari irregolari, che allarga ai minorenni la possibilità di detenzione e allontanamento obbligatorio. Una nuova minaccia per questi ragazzi cresciuti fuggendo, il cui sogno più grande resta una casa e una vita normale. Diritto universale che solo l'impegno degli Stati potrà ancora garantire.

CD ROM, gol al razzismo!

"Ehi, ragazzi, avete chiuso bene le macchine? Che qui intorno è pieno di zingari...".
E loro, i giocatori rom, scoppiano dalle risate. L'ironia è il modo migliore per cominciare una partita per Rino, l'allenatore dei CD Rom: il nome della prima squadra di football nomade della Capitale sta per “Calcio dei Rom” ma anche per “Contenitore di memoria Rom”. Ovvero quella di Danilo, Zak, Yasko e, tra gli altri, Rambo, Elvis (la passione gitana peri propri idoli...), ragazzi tra i 17 e i 23 anni, abitanti del campo nomadi di via Salviati a Roma. Da cui escono, anche grazie al progetto Street Work finanziato dal V Municipio, per andare ad allenarsi nel centro sportivo del quartiere. "Il calcio è un grande strumento per aiutare l'integrazione - spiega l’allenatore Rino Di Costanzo, educatore della Cooperativa Eureka I - perché la convivenza pacifica si costruisce vivendo la propria identità nelle cose più normali. Questi ragazzi li abbiamo conosciuti nel 2003 anche grazie alla Cooperativa Hermes, che si occupa di alfabetizzazione, noi poi siamo entrati nei campi con lo sport".
E al calcio d'inizio eccoli impegnati a seguire le regole del gioco, i ragazzi rom, di origini
rumene e bosniache, che 4 anni fa non si potevano vedere tra loro: "Tanto che avevamo bisogno
di due spogliatoi", spiega Gianfranco Giombini, altro educatore del progetto. "Oggi invece nei Cd Rom giocano anche un ragazzo albanese e due italiani". "L'anno scorso in un torneo la squadra ha vinto la coppa disciplina", tiene a sottolineare Giombini. Ma cosa fanno nella vita questi ragazzi
cresciuti nei campi nomadi? "Molti frequentano corsi di formazione professionale, c'è chi è meccanico, chi aiuto meccanico, chi parquettista". La maggior parte di loro sono arrivati in
Italia come rifugiati della guerra di Bosnia. "Gioco da quando avevo 7 anni e il calcio è la mia
vita, anche se in passato non mi prendevano in certe squadre perché ero senza permesso di
soggiorno", dice Zac che è il capitano. Ora lui vive fuori dal campo perchè si è sposato con
una ragazza romana, anche lei conosciuta sul campo da gioco: "Ma torno quasi ogni giorno a
trovare i miei cugini nei campi, quando me li porto dietro a giocare lasciano perdere altre attività, non vanno a rubà...". Zac sarà il prossimo educatore-allenatore della squadra dei
piccoli che verrà formata appena il progetto sarà finanziato. "Il calcio è importante anche per togliere per 2-3 giorni a settimana i ragazzini di 7-8 anni da quei campi dove vivono
tra fango e immondizia - dicono gli educatori - tra gli intolleranti e quelli che proclamano
la solidarietà ai rom, qui c'è bisogno di fare cose concrete!". L’anno scorso al campionato
antirazzista i Cd Rom sono arrivati tra le prime 12 squadre su 204: "Ma il nostro sogno è
partecipare anche alle iniziative professionali, come quelle del Coni, se avessimo i fondi",
dice Rino che è fratello dell'allenatore del Messina e per i suoi ragazzi punta in alto. "Ma i rom arrivano sempre per ultimi tra le emergenze, anche se sono i primi in termini di visibilità". Intanto nella borgata più amata da Pasolini i Cd Rom continuano a giocare. Come tutti i coetanei del mondo

(L.J. su Epolis 10-11-2007)

Foto di Laura Montanari (www.lauramontanari.it)

Minoranze, termometro della democrazia - Intervista a Tullia Zevi

Oltre la solidarietà, ha voluto esprimere “fratellanza” per le popolazioni rom e sinte «che hanno condiviso con noi ebrei i campi di sterminio». E in un momento in cui gli zingari sono al centro del problema sicurezza, ha voluto ricordarne, commossa, la grande vitalità: «Nei campi, sapendo di essere destinate a morire, si accoppiavano continuamente e disperatamente: trovo questo un meraviglioso inno alla vita».
È con un intervento coinvolto e molto toccante che Tullia Zevi, giornalista e storica, prima donna presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), ha parlato della popolazione migrante per definizione, all’incontro “1000 voci contro il razzismo”, organizzato all’Università La Sapienza di Roma.La sua interpretazione dell’ebraismo va oltre l’aspetto religioso: come persona «che ha vissuto sulla propria pelle il razzismo», vede nell'appartenenza a una minoranza, il ruolo speciale di coscienza critica della società.
Cosa la spinge a prendere posizione affianco alle popolazioni rom e sinti ?
Le minoranze sono un po’ il termometro del grado di democrazia di un Paese: dalle condizioni delle minoranze, da come vivono, si sentono e vengono tutelate, si misura la temperatura democratica della società. Quindi a unirci è il diritto della minoranza ad esistere. Ho sempre avuto molta solidarietà per i rom, ho sempre considerato con molta comprensione i loro problemi, perché hanno avuto un destino simile agliebrei ed è un'ingiustizia che non se ne parli.
In questo momento in italia s'associano i rom ed in generale i migreanti al problema della sicurezza ...
È un problema che va inquadrato in un contesto molto più ampio: il fatto di passare da una società omogenea ad una realtà multiculturale, è un passaggio faticoso,che va gestito, studiato ed elaborato. Ma è una sfida che i nostri tempi ci offrono e la dobbiamo affrontare. E in parte già lo stiamo facendo: stiamo diventando sempre più europei, mentre il mondo di sta unendo con la facilità di comunicazione, di spostamento. È nella natura delle cose. Vi sono ideologie razziste di destra estrema che si radicano nella mancanza di cultura, nelle frustrazioni,ma credo, e spero, che l’Italia sia un Paese solidamente democratico.
Come affrontare questo periodo di transizione ?
Bisogna che le varie culture, pur preservando la loro identità trovino il modo di dialogare: in una società multietnica e multi culturale, la cosa importante è avere una propria identità, ma essere aperti al dialogo. L'unico orizzonte che ritengo possibile è quello del confronto e dell'integrazione.
lei ha fatto parte della commissione interculturalità del ministero delll'istruzione nel 1998
Quali nstrumenti abbiamo a disposizione oggi ?
Abbiamo il dovere di educare alla cultura della diversità, rafforzando gli strumenti dell’educazione e dell’istruzione, per preparare le nuove generazioni a questa sfida. Insegnare che siamo tutti abitanti di un unico mondo, dove l’unica razza esistente è la razza umana.La società è destinata a diventare sempre più interculturale e sempre più internazionale, e quindi noi dobbiamo seguire questo trend, cercare di contribuire culturalmente ai suoi valori.
La sua vita narrata da sua nipote nel libro di recente pubblicazione " ti rascconto la mia storia " è un diario tra generazioni vche contiene un messaggio molto importante per il futuro
Mentre le società, le tecnologie, le forme di comunicazione cambiano, l’incontro tra culture diventa anche verticale, oltre che orizzontale: è multidirezionale. Il dialogo è il tema ricorrente nel libro. Perché ci sono cose nella vita che vanno trasmesse, e non per un desiderio di vendetta, ma perché la conoscenza del passato è l'unico antidoto per la tutela dei diritti umani.
Quando era il presidente dell'ucei nel corso di una sua visita a roma Arafat la cerco per stringerle la mano e lei ricambio .
C'è ancora speranza nella pace tra Israele e Palestina ?
Più che speranza, c’è necessità. Sono due culture che sono cresciute fianco a fianco: si dice che sono due popoli condannati a coesistere, io dico che sono destinati a vivere insieme. Prima sarà, meglio sarà.

(L.J. E Polis 20-6-2008)