mercoledì 15 settembre 2010

Quale rapporto tra aiuti e progressi contro la fame nel mondo?


Se molte Ong, in particolare Oxfam International, hanno sottolineato come la diminuzione del numero di persone che soffrono la fame nel mondo, non è stata determinata dalle donazioni dei paesi ricchi, ma da altri elementi (come due anni di buoni raccolti e la conseguente diminuzione del costo del cibo), la domanda, su qual'è il rapporto tra soldi donati e progressi nella lotta alla malnutrizione, sorge spontanea. Ha provato a rispondervi il giornalista del Guardian Jonathan Glennie , nella nuova sezione del sito del quotidiano britannico, dedicata allo sviluppo globale (www.guardian.co.uk/global-development).

Glennie divide i paesi in via di sviluppo in due gruppi principali, che rappreseno due tendenze contrastanti. Da un lato ci sono Cina, India, Brasile e gran parte dei paesi dell'America Latina, per i quali la diminuzione delle persone malnutrite è stata determinata dall'aumento generale della ricchezza e da alcune politiche statali, con poca incidenza degli aiuti allo sviluppo che rappresentano una percentuale minima del prodotto interno lordo. Dall'altro lato abbiamo un gruppo di paesi più poveri (concentrati prevalentemente in Africa, qualcuno in Asia e pochi in America Latina), dove invece l'aiuto allo sviluppo, che rappresenta una parte notevole del prodotto interno lordo (in Burundi la percentuale arriva al 50%), è necessariamente rilevante.

Ma in che modo l'aiuto incide? A questa domanda il giornalista ammette di non avere risposte certe: "Dovremmo conoscere gli aspetti specifici delle politiche del paese beneficiario e i particolari delle forme di aiuto". Spiega che in alcuni casi il denaro donato può aver minato gli equilibri economici e politici locali con effetti distruttivi, ma che quando è stato ben gestito ha portato buoni risultati e cambiamenti nella vita della gente, con piccoli effetti negativi. Tutto dipende dai singoli casi.
Il giornalista, infine, ammette che la divisione dei due gruppi è piuttosto arbitraria e che vi sono diversi paesi nel mezzo.

Noi possiamo notare che, i paesi dove tuttora vive la maggior parte delle persone che soffrono la fame e la povertà nel mondo, non si trovano nei paesi che seguendo gli stereotipi più comuni immagineremmo ma, in ordine: nei giganti economici India e Cina, in Nigeria (ricchissima di petrolio e secondo paese africano con il più alto pil del continente, dopo il Sudafrica), in Bangladesh e in indonesia. Seguono, a pari merito, Tanzania e Etiopia.

Per vedere la rappresentazione grafica: http://www.guardian.co.uk/global-development/datablog/2010/sep/14/bottom-billion-poverty

Foto: una venditrice di riso al mercato in Ghana - di L. Jona

martedì 14 settembre 2010

Pescatori di uomini: i pericolosi salvataggi di migranti raccontati dai loro protagonisti

Salgono all'onore delle cronache soprattutto quando vi sono scontri, con le motovedette libiche per i controllo dei confini marittimi. Ma molti tra i pescatori siciliani di Mazara del Vallo - tra cui l'equipaggio del peschereccio Ariete guidato da Gaspare Marrone, su cui ieri si sono abbattuti i colpi di una motovedetta libica - hanno ricevuto il premio "Per Mare" dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), per aver salvato centinaia di migranti in pericolo, nella traversata del Mediterraneo. Nelle pericolose operazioni di recupero dei naufraghi, questi pescatori hanno spesso sostituiscono la guardia costiera italiana. Senza alcun rimborso pubblico, ma solo per rispettare la legge del mare, che impone l'aiuto a chi è in difficoltà. Ecco i loro racconti in prima persona, che ho raccolto per la rivista Carta.



I PESCATORI- EROI DI MAZARA DEL VALLO
“Dopo averli presi a bordo tutti, ho prestato il cellulare ad alcune ragazze perché avvertissero le famiglie che stavano bene. Erano persone educate, istruite, si vedeva che non fuggivano per fame, ma per cercare la libertà. Solo un po' di libertà!” A parlare è Salvatore Cancemi, capitano del motopeschereccio Twenty Two della flotta di Mazara del Vallo, premiato dall'Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unchr) per aver compiuto la più eroica operazione di salvataggio di migranti nel canale di Sicilia nel 2008. Il premio “per mare” dell’agenzia dell’Onu, prevede una somma in denaro (10.000 euro per l’intero equipaggio) per ripagare l’impegno umano, ma anche economico, che offrono i pescatori che si prestano ai salvataggi. Oltre ai pescherecci che incontrano carrette in mare, numerosissimi sono infatti i casi in cui le motovedette della guardia costiera chiedono ai pescherecci di intervenire nei salvataggi di migranti, date le loro imbarcazioni più spaziose e adatte ai trasbordi. Senza rimborsarli dei rischi corsi, ne delle perdite economiche. “Interveniamo nei salvataggi semplicemente perché questa è la legge del mare”, dicono tutti gli intervistati. Ma il rischio di perdere entrate vitali, in un periodo di forte crisi della pesca, può spingere altri a guardare dall’altra parte. Soprattutto nell’era dei respingimenti forzati.



Salvarne 300 in una notte buia e tempestosa
Cancemi e il suo equipaggio hanno cambiato il destino di 299 persone il 27 novembre scorso, quando in piena notte sono stati chiamati dalla capitaneria di porto di Lampedusa: un barcone con centinaia di migranti era in difficoltà. Con il buio, il mare forza 8 e gli scafisti che, temendo di essere arrestati, imponevano le luci spente, c’erano tutte le caratteristiche di un'enorme tragedia in mare. C'è voluta qualche ora e l'esperienza del capitano Cancemi, per individuare nel mare in tempesta l'imbarcazione, raggiungerla e avvicinarla alla costa. “Quando le onde portavano la nostra barca giù e la loro su, saltavano a 20-30 insieme, come pirati! E i nostri ad acchiapparli come tonni. Sempre pescatori siamo..”, racconta Cancemi animandosi al ricordo e mimando le azioni. “Alla fine, quando ho visto che nessuno si era perduto o fatto male, l'emozione è stata enorme e la tensione è scoppiata in un grande pianto liberatorio”. Nell'equipaggio si scherzava anche, per tenere alto il morale, come racconta Francesco Cancemi, il capo macchine del peschereccio: “Cercavo di distrarli, soprattutto le ragazze, che erano ancora spaventatissime! Gli abbiamo dato da bere, da mangiare, vestiti e biancheria arrivati al porto di Lampedusa, c'era una folla ad aspettarci: ci hanno accolto con un lunghissimo applauso”.



L’obbligo di rimandarli indietro
Non sempre i salvataggi in mare si concludono con gioia: “Una storia che non abbiamo mai raccontato – dice Cancemi – è quella di un'imbarcazione di tunisini, incontrata al confine tra le acque territoriali della Libia e quelle della Tunisia. Erano una ventina e imbarcavano acqua. Prima di soccorrerli – ricorda il capitano - abbiamo avvertito le autorità marittime”. L’autorizzazione è infatti essenziale per effettuare un salvataggio il mare, altrimenti i pescatori possono essere accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, rischiando fino a 24 anni di carcere, oltre alla perdita di un'attività economica vitale per l’intero equipaggio. “Ci è stato detto di prenderli a bordo ma di riconsegnarli ad una motovedetta tunisina che sarebbe venuta a prenderli: quando hanno saputo di dover tornare in Tunisia, quei ragazzi si sono rattristati molto. E anche noi – spiega Cancemi - perché sapevamo che li avrebbero picchiati e messi in carcere per mesi. Ma al momento di salutarci ci hanno ringraziato molto: per avergli salvato la vita”.

Un fagottino dal mare in tempesta
Ci sono due immagini che resteranno sempre impresse nella mente di Pietro Russo, capitano del motopesca “Ghibli”. La prima è quella di un fagottino che gli venne dato mentre fuori dalla barca infuriava una tempesta: “L'ho aperto e mi sono trovato di fronte bambino, piccolissimo – racconta, mentre il viso gli si illumina – mi ha sorriso e ho dimenticato tutto il resto. Aveva tanta voglia di giocare, dopo tutto quel buio e quello stare fermo, in quella barchetta tutti ammassati”. Quella sera, il Ghibli con i pescherecci Monastir e Ariete erano stati chiamati dalla capitaneria di porto di Lampedusa per soccorrere un barcone in balia delle acque agitate al largo dell’isola. “Ci siamo trovati davanti ad una scena agghiacciante: ragazzi di 15 - 16 anni erano in una barchetta piena in modo incredibile di persone, ad occhio 300-350, che piangevano e urlavano – racconta Russo - bisognava agire in fretta perché imbarcavano acqua. Con l'aiuto del Monastir e dell’Ariete, li abbiamo protetti dal vento per caricarli. Un'operazione rischiosissima. E' in tutta quella confusione, il primo ad arrivare a bordo, è stato quel fagotto”.

Vedere la morte tra le onde
L'altra immagine che Russo non scorderà mai risale al 2006. Tornando da una battuta di pesca aveva incontrato un'imbarcazione di migranti che chiedeva aiuto. La barca di Russo si era avvicinata, ma nella foga di salire a bordo, o forse spaventati da alcuni delfini che saltellavano dietro al peschereccio, i naufraghi si erano spostati tutti su un lato e la barchetta si era capovolta. “Ci siamo trovati a dover salvare una ventina di persone che non sapevano nuotare: era questione di attimi. I primi ad avvicinarsi sono stati una coppia: abbiamo acchiappato il marito ma lei non ce l'abbiamo fatta e si è abbandonata. Poi, abbiamo saputo che aveva con sé un bambino di pochi mesi che le era sfuggito nel rovesciarsi della nave. L'ho vista affondare con i lunghi capelli neri che si allargavano nell'acqua. Non abbiamo potuto buttarci per salvarla perché c'erano altre 20 persone in mare. Alla fine ne abbiamo portati a riva 21, su 23 – dice il capitano, ancora addolorato – ma per lei e il bambino non c'è stato niente da fare”.


Un uomo solo su un pezzo di legno
Vito Cittadino, capitano dell'Ofelia I, stava sul ponte del suo peschereccio all'alba di un giorno d'inverno del 2007, quando vide all'orizzonte qualcosa che, all'inizio, gli parve una boa: “Ho preso il binocolo e ho visto un braccio che si alzava – dice Cittadino mimando la sorpresa del momento - sono avanzato quei 400 metri cercando di non perderlo di vista. Era un uomo solo su un pezzo di legno, il pavimento di un gommone. Gli ho lanciato un salvagente e poi mi sono proteso per afferrarlo. Cittadino ricorda la paura che gli morisse tra le braccia: “L'ho portato a bordo e gli ho fatto una doccia calda poiché tremava. Dopo 18 ore in mare, aggrappato al pavimento di un gommone, la sua pelle nera era diventata bianca. Aveva perso i sensi, non mangiava, non beveva quasi. Si è ripreso dopo aver dormito 24 ore. Ci ha raccontato che erano partiti da Tripoli in 47: mauritani e molti iracheni, tutti giovanissimi, più lui che già aveva solo 24 anni. Erano morti tutti”.

Foto: L. J.

Motovedette donate dall'italia alla Libia. Oggi sparano sui pescatori siciliani e l'anno scorso li sequestravano. Reportage da Mazara del Vallo

Sta facendo scalpore la notizia di una motovedetta libica con a bordo esponenti della guardia di finanza italiana che ieri ha sparato su un peschereccio di Mazara del Vallo colpevole di non essersi fermato immediatamente all'alt intimatogli dall'imbarcazione militare. Ma l'atteggiamento aggressivo delle forze dell'ordine libiche nei confronti dei pescatori italiani, indirettamente sostenuto dai rapporti sempre più stretti tra i due paesi, non è affatto cosa nuova. Di seguito un mio articolo pubblicato sul settimanale Carta esattamente un anno fa. Che ci indica anche, come il motivo del contendere sia una differente interpretazione del diritto del mare.



SEQUESTRATI DAI LIBICI CON LE MOTOVEDETTE DONATE DALL'ITALIA

Se non è stata una provocazione del presidente della Libia, Muhammar Gheddafi, certo un curioso scherzo del destino. Proprio le motovedette recentemente donate dall'Italia alla marina libica per pattugliare le sue coste ai fini di contrastare l'immigrazione irregolare nel nostro paese, sono state usate per sequestrare, dal 22 luglio al 4 agosto 2009, il motopeschereccio Monastir della flotta di Mazara del Vallo guidato da Nicola Asaro, già premiato dall'Alto commissariato Onu per i Rifugiati per aver salvato più volte barche di migranti in pericolo nello stretto di Sicilia. Un'operazione, conclusa con la minaccia della confisca dei pescherecci che in futuro si avventurassero nella striscia di mare di 74 miglia che circonda la Libia e giunta proprio alla vigilia del 30 agosto, giornata dell'”amicizia Italia-Libia”.

“Quel confine va contro la normativa internazionale che stabilisce a 12 miglia il limite delle acque territoriali di ogni paese – dicono i pescatori mazaresi - Gheddafi, con un decreto del 2005 si è arrogato il diritto di definire libiche altre 60 miglia di acque internazionali ricchissime di pescato. Ma il peggio è che il governo italiano e la nostra guardia costiera si adoperano per fare rispettare le regole fissate dal dittatore libico, unilateralmente”. Effettivamente, sul sito della marina militare italiana si legge: Con decreto 37/2005 del 24 febbraio 2005 la Libia ha proclamato una zona di protezione dalla pesca che si estende per 62 miglia a partire dal limite esterno delle acque territoriali (12 miglia dalla costa) e in cui viene esercitata giurisdizione volta a vietare, a meno di autorizzazione delle competenti autorità, qualsiasi attività di pesca. Annessa al decreto è la «Declaration of a Libyan Fisheries Protection Zone in the Mediterranean» con cui si indicano, come base legale dell’iniziativa, il Protocollo di Barcellona del 1995 concernente le aree del Mediterraneo specialmente protette, oltre a diversi accordi della Fao a protezione dell’ambiente marino.



Ma le aggressioni e i sequestri a danno dei pescherecci italiani risalgono a molto prima del 2005. Vincenzo Pellegrino, capitano del motopeschereccio “Regina”, (premiato dall’Unhcr per un salvataggio nel 2008), ricorda con orrore i tre mesi di detenzione in un carcere di Tripoli, nel 1979: “Ero in una stanza di 5mq con 22 persone e con un pasto scarso al giorno”. Successivamente ci sono stati casi in cui i pescherecci stessi non sono mai stati riconsegnati, provocando una perdita enorme per gli armatori. Nel 2000 i militari libici hanno addirittura provocato la morte un marinaio del motopesca Orchidea, entrando e provocando un incendio nella barca che pescava a 30 miglia dalla costa nordafricana. Nel recente caso del sequestro di cui sono stati vittima i motopesca Monastir e Tulipano, gli equipaggi sono rimasti 18 giorni in porto, evitando il carcere, ma Asaro - capitano del Monastir - ricorda con dolore, l'aria di beffa del militare libico che un mese fa è salito sulla sua barca ricordando l'episodio del 2000. Inoltre, il sequestro di un mese di pescato e delle reti è un danno imponente per i pescherecci: sommando i 30.000 euro di gasolio speso, i 60-70.000 euro del valore della pesca e i 20.000 delle 4 reti, si superano abbondantemente i 100.000 euro. Ma i pescatori mazaresi non intendono mollare: “Pescare in quel mare ci è necessario – dice il capitano Pietro Russo - una flotta di circa 200 pescherecci come la quella di Ma zara del Vallo non può fermarsi nelle acque poco a sud di Lampedusa. 74 miglia di acque territoriali, invece delle 12 di tutti gli altri paesi sono troppe”. Monsignor Domenico Mogavero, Vescovo di Mazara del Vallo si è pronunciato sulla vicenda auspicando un interesse europeo ma considerando necessario almeno quello del governo italiano, affinché sul tratto di mare conteso, si possano stabilire regole precise.

venerdì 10 settembre 2010

Reportage dal funerale di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica



Quando il funerale di Angelo Vassallo inizia, dal cielo già cupo cominciano a cadere grosse goccie di pioggia sulle centinaia di persone in attesa. Il piccolo porto di Acciaroli è incastonato tra il borgo di pietra chiara e il bel mare, oggi scuro e increspato. Le parole del Vescovo sembrano voler dare sollievo ad un'atmosfera cupa e gelida, nonostante le 11 di mattina. Indica nel materialismo "la causa di quell'arroganza e infelicità che si trasformano in violenza di alcuni poveri uomini". Riceve applausi quando dice "la violenza rende impossibile la nostra convivenza, la rende invivibile e infelice". Ma il clamore dei battiti di mani esplode, incontrollabile, quando esclama, riferendosi agli assassini di Vassallo: "Mi auguro solo che queste bestie non stiano fra a noi. O sul divano a guardarci alla televisione!" Poi riafferma la fiducia "nella popolazione di queste terre e nel loro impegno per il territorio". E' in quel momento che ascolto un gruppo di donne, il vento gli scompiglia i capelli e l'amaro commento: "Parole, parole, parole. Per venti anni, solo parole!". Indossano, come molti ragazzi e bambini qui, una maglietta bianca con scritto in azzurro "Sarai sempre il nostro Angelo".



Una giovane maestra di San Giovanni a Piro, un paese vicino Pollica, si illumina un momento, raccontando che nella sua scuola oggi si lavora molto sull'educazione ambientale e alla legalità. Insegnamenti per cui si era battuto per 15 anni il sindaco ucciso. Quando le chiedo se ha timore oggi, per il futuro di queste idee, mi guarda con le lacrime agli occhi: "Ora si, a questo punto ho paura".



Uomini in divisa a reggere gli stendardi dei comuni di Caserta e Subiaco, ma anche di Gubbio e di Greve in Chianti, sono ordinatamente schierati attorno al palco da cui si celebra la messa. Guardano al mare cupo, minaccioso anche dentro il porto. Più in là, accanto al profilo della cattedrale si staglia una gigantografia di Angelo Vassallo: si trova probabimente proprio in questo porto in una luminosa giornata di sole che rende il mare di un azzurro brillante. Celebrava le acque cristalline di Acciaroli, che oggi fremono e mugghiano. Mentre la cerimonia va avanti la pioggia si intensifica, si aprono centinaia di ombrelli e parla il vicesindaco: la voce sempre più rotta, man mano che ricorda l'ucciso, nella concretezza di episodi quotidiani. Dice: "Tutti quelli che sono qui devono sapere che oggi hanno fatto una cosa che non potranno mai più dimenticare. Oggi hanno promesso a Angelo di impegnarsi. Oggi voi avete promesso al Sindaco di tutti di non dimenticare. Io a tutti quelli che sono qui chiedo un impegno: affinché quello che Angelo ha fatto per il nostro comune voi lo facciate per tutti».



Tutti i balconi che danno sulla piazza sono affollati. Così come ogni spazio coperto sul porto. Alcune eleganti signore di Pollica, sono strette a proteggersi sotto la tenda di uno dei bar. "C'è tanta gente che viene da fuori – dicono – i cittadini come noi, siamo tutta gente che ha voluto esserci. Quelli delle istituzioni no, quelli sono qui per l'immagine". Chiedo loro che succederà adesso: "Ora non lo sappiamo. Lui aveva uno staff straordinario, ma senza una figura carismatica come la sua, chissà. Ci vorrebbe qualcuno come lui, capace di mettere insieme e coalizzare le energie".



Attaccato su un albero, accanto a una fontanella pubblica la cui manovella si apre e si chiude come appartenesse a una casa privata, c'è un cartello: "Bevi l'acqua del rubinetto: buona, sicura, economica – Comune di Pollica". Poco più in là un'enorme cassa di bottigliette di plastica con acqua minerale. Portate dalla protezione civile per la sua cerimonia.

Foto: L. J.

venerdì 14 maggio 2010

Dedicata a Lampedusa

Posto una poesia di Alda Merini, dedicata a Lampedusa. Bellissima

Una volta sognai
di essere una tartaruga gigante
con scheletro d’avorio
che trascinava bimbi e piccini e alghe
e rifiuti e fiori
e tutti si aggrappavano a me,
sulla mia scorza dura.
Ero una tartaruga che barcollava
sotto il peso dell’amore
molto lenta a capire
e svelta a benedire.
Così, figli miei,
una volta vi hanno buttato nell’acqua
e voi vi siete aggrappati al mio guscio
e io vi ho portati in salvo
perché questa testuggine marina
è la terra
che vi salva
dalla morte dell’acqua.

sabato 24 aprile 2010

Nadine Gordimer: scrittura e impegno

Conciliare lo splendore della parola e l'asprezza della realtà. Raccontare: spinti dall'intimo, ardente desiderio di cambiamento, ma senza esserne mai travolti. Questo che è per me è il modello, l'ideale di scrittura, lo ritrovo nei romanzi, racconti e saggi del premio Nobel per la letteratura nel 1991, Nadine Gordimer. Sarà il tema dell'incontro e scontro tra bianchi e neri durante l'apartheid, magistralmente raccontato dalla sua penna, che non è mai scontata e mai banale perchè narra lasciando che a parlare siano i più profondi impeti dell'anima umana. Per questo la sua lettura più di quella di chiunque altro, oggi mi appassiona e consola. Proprio perchè il suo "impegno", non è mai cieco, idealizzante o demonizzante. Ecco alcune sue riflessioni sul tema, che copio dalla raccolta di suoi saggi "Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo".

"La moralità della narrativa consiste nel prendersi la libertà di esplorare ed esaminare con impavida onestà la morale contemporanea, compresi sistemi morali quali le religioni.

Quando mai gli scrittori hanno potuto eludere la politica, apertamente o implicitamente?
Forse il periodo in cui schiavi e contadini vivevano in miseria, mentre gli scultori erano alla ricerca delle proporzioni perfette del corpo umano? Il periodo in cui i rivoluzionari erano rinchiusi nelle prigioni dello zar Alessantro mentre i granduchi si costruivano palazzi a Nizza? Il periodo in cui ad affamati e disoccupati veniva offerta la salvezza di un fascismo sempre più forte mentre i playboy e le ragazze danzavano tenendo in bilico bicchieri di champagne rosé?
Sembra che non vi sia modo di sfuggire a tale rapporto.

Non tutti gli scrittori che intessono un rapporto con la politica, barattano l'immaginazione con il cilicio dello scribacchino di partito. Esiste anche il caso dello scrittore le cui facoltà immaginative vengono autenticamente risvegliate e chiamate in causa dallo spirito della politica così come egli la vive in prima persona. E può non trattarsi della libera scelta di un Byron. Può essere qualcosa cui è praticamente impossibile sfuggire in tempi e luoghi di terremoti sociali.

Il ruolo rivestito dalla letteratura è nell'illuminare il nostro popolo, nel dischiudere la vita alla potenza e alla bellezza dell'immaginazione, nel rivelargli se stesso attraverso lo scrittore in quanto depositario del suo ethos.
E' di questa rivelazione che hanno paura i regimi.

.. ma gli scrittori, gli artisti di qualsiasi genere, esistono proprio per spaccare le incrostazioni prodotte dall'abitudine e aprire un varco tra le inferriate che tengono prigioniera la sensibilità: esistono per permettere alla libera immaginazione di spuntare rigogliosa come l'erba nei prati."


giovedì 4 marzo 2010

LA PASIONARIA CON IL SARI


Una gamba bloccata dalla poliomelite non ha fermato la sua volontà di giustizia. E Kuhu Das, ha lasciato lavoro e famiglia per fondare l'Association of Women With Disabilities che di occupa delle ragazze disabili degli slum indiani. Sostenendole nella battaglia per i diritti, contro le barriere fisiche ma soprattutto mentali.

"Posso cominciare l'intervista con una canzone?" Prima di ricevere risposta, Kuhu Das dà vita a un dolcissimo e malinconico canto orientale sfoggiando una splendida voce femminile. Poi si interrompe e torna al consueto tono risoluto: "Vuoi sapere cosa vogliono dire le parole? Ecco: «Io non ricevo cure, non ricevo rispetto, non ho dignità, io ho una vita davvero terribile». Questo, è quello che dice la canzone". E questa è la situazione delle donne disabili in India, come ci racconta la giovane direttrice dell'Awwd (Association of Women With Disabilities).

Abusi ed emarginazione
"Le donne disabili in India subiscono in silenzio una violenza che va dalla mancanza di cura e dalla privazione del diritto all'istruzione, fino a abusi fisici e psicologici veri e propri. Ciò accade a partire dalla famiglia, fino ai centri di accoglienza", dice, sottolineando come il problema tenda a essere ignorato anche dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani. "Nè nelle conferenze sui diritti delle donne, nè negli incontri per la tutela dei disabili se ne vuole parlare. Per questo devo sempre alzare la voce!" Con grandi occhi vispi e un senso dell'umorismo sempre pronto, Kuhu ha percorso, a dispetto della gamba bloccata dalla poliomelite, più strada di quanta il suo giovane volto farebbe credere. A cominciare dalla creazione di una delle prime associazioni a tutela delle donne disabili in India, la prima in cui parte dei soci e il 60 -70 per cento dello staff, è costituito da ragazze con disabilità.

"Senza stampelle io non posso camminare, a causa della poliomelite che ho avuto a tre anni. Crescendo con questa disabilità, ho dovuto affrontare molti ostacoli nella mia vita", dice Kuhu spiegando il percorso che l'ha condotta a fondare e dirigere l'Awwd. "Le prime sfide sono venute proprio da parenti e amici di famiglia. Molti di loro dicevano a mia madre che doveva aver sbagliato qualcosa nella sua vita passata, per essere stata punita con una figlia disabile". Kuhu racconta che, nonostante le critiche, la madre è stata molto forte, sostenendola nell'andare a scuola e nel completare la sua istruzione. Così Kuhu si è laureata, ha fatto un master in comunicazione di massa e ha cominciato a lavorare nel campo dell'empowerment delle donne in India. "Ma le organizzazioni di donne, non lavoravano mai per i diritti delle disabili e quando chiedevo loro di occuparsene mi rispondevano di farlo io stessa", racconta. "Era una sfida per me, ma ho deciso. Ho lasciato il mio lavoro, la mia famiglia e ho fondato questa associazione".


Donne a metà
Nel 2002 è così nata l'Awwd, la prima associazione indiana che si occupa di donne disabili coinvolgendo alcune delle beneficiarie, nel lavoro di sostegno e inserimento sociale e lavorativo di altre ragazze. Una sfida enorme, in un paese dove, come denuncia Kuhu, "le circa 40 milioni di donne disabili, sono vittime di un numero doppio di aggressioni e violenze, rispetto a quelle normali, ma sono anche le meno protette e assistite". E dove "la sterilizzazione forzata è uno dei rischi di tutte le donne diversamente abili, soprattutto mentali". "In generale nell'Asia Centrale – spiega Kuhu - il ruolo della donna è quello di sposarsi e avere bambini, ma se sei disabile non potrai essere una brava madre, una brava donna di casa. Se hai una deformità, non sei bella. Così nessuno ti sposerà. E nessuno ti considera una donna completa".

La direttrice di Awwd descrive poi la situazione che quotidianamente la sua associazione combatte: "Le ragazze disabili sono molto oppresse già nelle loro famiglie: nessuno pensa che debbano avere l'opportunità di studiare, ogni investimento su di loro è considerato una perdita di soldi. Vengono lasciate a casa e basta. Viene detto loro continuamente che sono persone inutili, così che cominciano ad esserne convinte esse stesse". Aspetto fondamentale del lavoro dell'Awwd, che attualmente opera in 15 aree del paese, beneficiando circa 5.000 ragazze, è quindi innanzitutto: "Fare capire loro, che nessuna persona è inutile, che ognuno è un essere umano e ha del potenziale da utilizzare al massimo, che non si deve avere vergogna delle proprie disabilità. Ciò porterà le ragazze ad avere una dialogo con il resto della società, a pretendere il rispetto e la considerazione cui hanno diritto".

Ricreare fiducia
"Quando cominciamo a lavorare in una nuova zona, ci sediamo con le donne e discutiamo a lungo cercando di tirare fuori la loro rabbia, gli abusi subiti, ma soprattutto i desideri che non hanno mai potuto esprimere". Poi l'associazione cerca di sostenere i progetti individuali, con mezzi materiali, come sedie a rotelle e computer, e con corsi di formazione professionale. "Ma il percorso di consapevolezza non è facile nè veloce - dice Kuhu - è un lavoro sulle ragazze ma anche sulla loro famiglia che dura 2-3 anni. E' difficile soprattutto negli slum a maggioranza musulmana, dove la collettività ha idee più tradizionali". Per questo vengono creati dei gruppi: "Così le ragazze possono sostenersi tra di loro, esprimere le loro sofferenze e comprendere i loro diritti, per poter rispondere agli abusi, fisici e psicologici di cui sono vittime". Le attività lavorative in cui le ragazze, vengono inserite sono soprattutto lavori di cucito e piccole attività commerciali. "Quando iniziano a guadagnare dei soldi, nelle famiglie cominciano a rispettarle di più".

"Abbiamo molte storie di successo!" Esclama Kuhu, mostrando le foto di alcune delle sue ragazze, raccolte in un calendario nella sede di Pangea Onlus, la ong italiana che sostiene alcuni progetti di Awwd. "Presto ho capito che nell'associazione non potevo fare tutto da sola, avevamo bisogno di varie altre leader come me. Così abbiamo formato alcune delle ragazze che erano state beneficiarie dei gruppi di empowerment, nella leadership di nuovi gruppi". Un ruolo che non ha trovato ostacoli nella mancanza di mobilità o di vista di alcune donne dello staff di Awwd. "Tabassum è cieca ma è diventata una leader molto coraggiosa", "Soni, che ha una disabilità motoria, ha motivato Ayesha che è cieca", "Lei è stata gravemente abusata, ma, è riuscita a reagire" "Banya ha creato una piccola attività di produzione di bastoncini di incenso".. E poi ci sono quelle come Nisha, che non era mai andata a scuola a causa della sua disabilità motoria, ma che dopo aver ottenuto una formazione per l'apertura di un'attività commerciale è diventata sia una piccola imprenditrice che una formatrice e promotrice di gruppi di empowerment. Ora si considera "una donna d'affari e una datrice di lavoro". L'indipendenza economica è fondamentale, dice Kuhu: "Adesso tutta la comunità sta attenta a come parla a queste ragazze".

pubblicato anche sulla rivista Vps (Volontari per lo Sviluppo): www.volontariperlosviluppo.it