martedì 29 dicembre 2015

Il Club dove la malattia mentale si cura senza psichiatri. E con il lavoro

Viaggio nel “Club House” Itaca di Roma, una delle strutture nate negli Usa e che si stanno diffondendo anche in Italia. Con la gestione collettiva di spazi comuni le persone recuperano professionalità e fiducia, per affrontare una nuova occupazione e riprendere in mano la vita

Pubblicato su Redattore Sociale il 9 ottobre 2015
ROMA - Nessun camice bianco in questo luogo dedicato al recupero di persone con disagio psichico. L'assenza di psichiatri, ma anche di psicoterapeuti, è una regola nelleClub House, strutture nate per favorire il reinserimento sociale delle persone con disagio psichico attraverso il lavoro, la socialità e il mutuo-aiuto. Anche se ciascuno di coloro che frequentano le Club House ha il proprio psichiatra di riferimento, all'interno di queste "palestre" di vita e lavoro sono assenti figure mediche su cui “scaricare” responsabilità.
La sala comune del Club Itaca
Salute mentale. Club Itaca, Sala comune
“Come specialisti abbiamo icounselor (che lavorano nell'orientamento e nel sostegno delle potenzialità),ma per lavorare qui l'importante è essere capaci di relazionarsi con persone molto sensibili", spiega Guido Valentini, direttore del Club Itaca di Roma, una delle quattro strutture che in Italia applicano il metodo nato in America negli anni '50 negli Stati Uniti su iniziativa dello psichiatra John Beard. Oggi sono circa 300 le Club House aperte in tutto il mondo, soprattutto nei paesi anglosassoni ma si stanno affermando anche in Italia:dopo la prima esperienza di Milano, ne sono nate altre a Roma, Firenze e Palermo, mentre alcune strutture sono in via di apertura a Napoli, Genova e Parma. I servizi sono sempre offerti in modo gratuito, grazie al sostegno di privati.
Quando alla vigilia della Giornata della salute mentale (10 ottobre) entriamo nel Club Itaca, tutti si presentano per nome e non ci è possibile distinguere gli operatori dagli utenti che qui vengono chiamati “soci” perché, una volta deciso di intraprendere il percorso di riabilitazione, aderiscono all'associazione. “E’ un gioco che facciamo sempre - ci dirà più tardi il direttore del centro Guido Valentini - generalmente le persone in visita non riescono a capire chi è staff e chi è socio e noi all’inizio non lo diciamo”. Un traguardo importante per chi per lunghi periodi ha avuto a che fare con lo stigma della malattia mentale. 
Alcuni dipinti di Eleonora
Salute mentale. Club Itaca, Eleonora e i suoi dipinti 2
Cristiano e Eleonora, due soci, ci accompagnano a fare il giro della struttura e illustrano le sue regole. Per diventare soci del Club, bisogna innanzitutto accettare di collaborare alle attività che servono per portare avanti la struttura. Cristiano e Eleonora me le indicano su una lavagna, dove sono suddivise in quattro categorie principali: amministrazione, gestione del ristobar, manutenzione, orto e giardinaggio.
Eleonora e i suoi dipinti
Salute mentale. Club Itaca, Eleonora e i suoi dipinti 3
“Ogni giorno, alle 10 e alle 14,15 facciamo le riunioni in cui ci dividiamo le mansioni - spiega Cristiano - ciascuno sceglie l’attività che preferisce, cominciando a capire la propria inclinazione, un primo passo per poi professionalizzarsi”. “Solo successivamente si cominciano a guardare e esaminare le opportunità di lavoro”, aggiunge Eleonora indicando una bacheca con alcuni annunci, “l’importante, prima, è assumere una costanza, un percorso di riabilitazione”. Oggi sono 55 i soci di Club Itaca: 18 hanno già intrapreso un percorso di lavoro e mentre i restanti 37 frequentano il centro una media di 25 persone al giorno.
Una delle definizioni dei Club House è “palestra di lavoro” poiché tutte le attività vengono svolte nell’ottica di formare le persone alla disciplina che richiede un’occupazione fissa: “Ogni lavoro viene svolto in coppia per abituarci a operare in team”, spiega Eleonora. Inoltre, nella gestione del club, “non ci sono riunioni di staff ma tutti i soci sono coinvolti”. E le decisioni più importanti vengono prese all’unanimità in una riunione plenaria che si svolge nella sala convegni una volta al mese. Così ci si abitua nell'arte della mediazione, fondamentale in ogni tipo di lavoro.
Sono tre i tipi di lavoro che possono essere avviati nell’ambito di una Club House: Il primo è quello temporaneo, ovvero un tirocinio. La seconda modalità è il lavorosupportato attraverso il sistema job station,ovvero la possibilità di lavorare per aziende esterne ma dall'ufficio all'interno del Club: “Io per esempio faccio un'attività di telelavoro per Accenture”, spiega Cristiano. Poi c'è il lavoro indipendente, presso aziende esterne. “Per esempio un nostro amico, Marco, dopo sei mesi di frequenza di Club Itaca Roma ha trovato un lavoro come falegname – racconta Eleonora - e dopo tre anni in quell'azienda, sabato scorso ha spiccato il volo verso Londra, selezionato da un’impresa britannica”.
La prima Club House italiana è nata a Milano per iniziativa di alcuni familiari di persone con disagio mentale che hanno raccolto i fondi per finanziare, prima un numero di verde per l'aiuto di persone con disabilità mentale e le loro famiglie, e poi una struttura. A Roma Club Itaca – che ha un bilancio annuale di 230mila euro - è finanziata da grandi aziende private oltre ai soci e alle loro famiglie, che quando possono contribuiscono. Il Club ha contatti regolari con i centri di salute mentale e con gli ospedali, ma non vi sono finanziamenti pubblici. “Oltre ai tagli alla salute – spiega il direttore Valentini – c'è il fatto che nel settore pubblico è difficile accettare l'idea della riabilitazione psichiatrica senza medici”. Eppure è stato rilevato un effetto positivo della frequenza del Club sulla salute dei pazienti: “Le persone che sono qui da oltre sei mesi riducono l'assunzione dei farmaci - afferma Valentini - la "medicina dell'amore" sopperisce a quella chimica, poiché il fatto di essere benvoluti produce ormoni che compensano i mancati effetti del farmaco". (Ludovica Jona)

Salute mentale: quasi il 70% dei pazienti psichiatrici può "riprendersi" la vita

Il libro “Recovery", a cura di Antonio Maone e Barbara D'Avanzo (Raffaello Cortina) fa il punto sulle pratiche di inclusione attraverso lavoro e abitazione autonoma auspicate da Basaglia. “Per realizzarsi come persone non è necessaria la ‘guarigione’ completa”

Pubblicato su Redattore Sociale il 9 ottobre 2015
"Mentre alcuni terapeuti tradizionali potrebbero essere descritti come persone che adottano l'atteggiamento ‘io lo so, io te lo dico’, la posizione che io sostengo è ‘tu lo sai, dimmelo’”. Il volume "Recovery" curato dagli psichiatri Antonio Maone e Barbara D'Avanzo per Raffaello Cortina editore, si apre con una frase di John Bowbly sul lavoro degli operatori della salute mentale che curano chiedendo la partecipazione attiva del paziente.
La copertina del libro
Recovery - copertina libro
Il libro di Maone e D'Avanzo illustra e analizza - attraverso riferimenti agli innumerevoli studi e esperienze finora realizzati sul tema - la pratica della recovery, che si è affermata negli ultimi anni prima nel mondo anglosassone e recentemente si sta diffondendo anche in Italia. Il concetto di recovery, che si può tradurre con il termine "riprendersi" più che con "guarigione" sta proprio nel "tentare di restituire ciò che ogni psichiatra rischia di sottrarre nel suo entrare in scena nella vicenda esistenziale del paziente", ovvero "il diritto di scegliere, la possibilità di ricostruirsi una vita". Come evidenziato nella prefazione di Massimo Cosacchia, presidente della Wapr (World Association for Psychosocial Rehabilitation), i due curatori del volume hanno per la prima volta risposto all'esigenza di chiarificazione di un fenomeno che si è affermato negli ultimi anni e che ha "attraversato e nutrito le esperienze di deistituzionalizzazione", in attuazione, tra l'altro, del pensiero di Franco Basaglia.
Quasi il 70% dei pazienti psichiatrici può “riprendersi” la vita  Nel primo capitolo di “Recovery” Maone riassume gli studi realizzati nell'ultimo secolo sulla possibilità di cura delle persone che soffrono di disagio mentale: “Se analizziamo i dati per definire il numero di casi che, a distanza di molti anni dal primo ricovero non hanno più sintomi e non assumono farmaci e hanno al massimo una limitazione in una delle aree del funzionamento (lavoro, vita indipendente e relazioni sociali) – afferma - si ottengono percentuali che vanno dal 53 per cento al 68 per cento”.
Oltre la psichiatria: non è necessaria la guarigione completa  In più parti nel libro si afferma che per avere una vita soddisfacente e per realizzarsi come persone non è necessaria la "guarigione" completa dai sintomi della malattia mentale, ma la capacità di "riprendersi". Il secondo capitolo del volume, intitolato "La vita, oltre la psichiatria" e' scritto da Wilma Boevink una paziente psichiatrica che ha fatto del proprio male un oggetto di studio e che racconta, attraverso episodi della propria vita, sia la ghettizzazione sociale e l'umiliazione sottile determinata dall'istituzionalizzazione dei pazienti, sia la possibilità di una vita "nonostante la malattia" offerta da esperienze improntate alla recovery.
Rischio sfruttamento dei disoccupati “a rischio depressione”
Gli strumenti concreti attraverso i quali è possibile la riabilitazione psichiatrica secondo larecovery coincidono con gli aspetti determinanti dell'inclusione sociale: lavoro e vita indipendente. A questo tema è dedicato il capitolo 10 del volume, a cura di Angelo Fioritti e Antonio Maone, che analizza gli interventi di tipo sociosanitario che possono favorire l'inserimento lavorativo e opportunità di vita indipendente. Si evidenzia come questo tipo di percorso si contrapponga diametralmente alla pratica dell'istituzionalizzazione in strutture psichiatriche che tendono invece a escludere i pazienti dal proprio contesto sociale più di quanto abbia già fatto la malattia. Si cita, come norma che per l'Italia ha facilitato l'inserimento lavorativo per persone con disabilità psichica, la legge 68 del 1999. Viene tuttavia riportato il rischio di strumentalizzazione di questa legge, nel contesto di crisi economica: "Alcune amministrazioni hanno iniziato a utilizzare le borse lavoro per i cittadini disoccupati ‘a rischio depressione’ per servizi che loro stesse devono garantire, ottenendo indirettamente manodopera a basso costo".
L'abitazione supportata  Nel volume si parla di come - nonostante in Italia la chiusura dei manicomi seguita alla Legge Basaglia del 1978 - le persone con disabilità psichiatrica siano a rischio "re-istituzionalizzazione": "Strutture concepite come riabilitative e transitorie in vista della vita autonoma, tendono invece a divenire ‘case per la vita’”. Si vive in strutture psichiatriche perché si hanno sintomi di malattia mentale, ma - emerge dal libro - è vero anche il contrario. La soluzione suggerita per uscire dal circolo vizioso è "valutare separatamente bisogni abitativi e bisogni assistenziali". Nella pratica possono essere promossi progetti di abitazione indipendente supportata dagli stessi servizi di salute mentale che garantiscano, oltre all'assistenza sanitaria, anche la possibilità di avere uno spazio proprio, il diritto alla privacy e quello alla scelta della propria sistemazione abitativa. Si tratta di soluzioni - frutto di esperienze ancora sperimentali in Italia - apprezzate dai pazienti ma ancora spesso viste con sospetto da operatori della psichiatria e dagli stessi parenti dei malati.
Il cambiamento necessario nei servizi di salute mentale  Il "cambiamento organizzativo" dei servizi di salute mentale necessario per promuovere larecovery è al centro del nono capitolo del volume, scritto da Geoff Sheperd. Il testo contiene indicazioni concrete per gli operatori di salute mentale sintetizzate in 10 "sfide organizzative" elaborate nell'ambito del modello anglosassone dove le pratiche ispirate alla recovery sono già molto diffuse. In particolare si auspica una relazione terapeutica che "promuova la collaborazione e la speranza" e che sostenga "progetti e sogni per il futuro" e un focus "sui bisogni degli utenti più che su quelli dei servizi". (Ludovica Jona)

mercoledì 5 agosto 2015

cartolıne da Istanbul

La ragazza saudıta con ıl niquab (velo nero che copre anche il volto) che non la smette di farsi i selfie durante la gita in barca sul Bosforo. Io che grido di smetterla a suo marito, che nel frattempo si diverte a gettare bottiglie e bicchieri nel canale. Google maps che, al digitare 'Chiesa di San Domenico' mi porta - complice wıkıpedia - nella moschea costruıta dove nel 1100 c'era il convento domenıcano. La guardia della moschea che prende a cuore la mia ricerca fıno ad obblıgare un ragazzo, venuto forse a pregare, ad accompagnarmici. Il ragazzo che mi guıda su e gıu per la collina e quando fınalmente avvıstıamo la pıccola croce nascosta non accetta neanche una mancia. Questo traghetto che ogni sera mi riaccompagna nella parte asiatıca della cıtta' mentre le onde del mare dıventano vıola come il tramonto. La mia amıca turca che si commuove a mostrarmi i vıdeo della protesta di Gezi park e poi dıce "e' stata la prıma volta, ma ora non sara' pıu' cosi. Perche' oggi abbıamo paura".

martedì 6 gennaio 2015

Psichiatria, la cura dell'inclusione. Benessere per i pazienti e risparmio per lo Stato

Il “budget di salute” è una opzione che permette di affrontare il disagio psichico favorendo il reinserimento sociale dell’individuo. 

Luigi, quarantenne sordomuto dalla nascita, comunica abbracciando in modo vigoroso e innocente le persone che incontra. Prima, nella struttura residenziale psichiatrica dove ha vissuto per anni, chiedeva attenzione sbattendo la testa al muro fino a che non usciva il sangue. Per questo lo riempivano di farmaci. 



Quando lo incontro, Luigi -  che fa parte della comunità per persone con disagio psichico “Alberto Varone”, nel casertano - ha concluso un percorso riabilitativo basato sul sistema del “budget di salute” nell'ambito di una fattoria confiscata alla camorra a Sessa Aurunca (Ce). Si tratta di un progetto gestito dalla cooperativa sociale "Al di là dei sogni": Invece di pagare per lui una retta nella casa di cura psichiatrica, lo Stato gli ha garantito un’abitazione insieme ad altri pazienti, attività di “educazione alla socialità” e un progetto di reinserimento lavorativo mirato a valorizzare le sue capacità personali.

Figlio di contadini e abituato fin da piccolo a prendersi cura della terra, nei tre anni di percorso ha valorizzato questa competenza. “Riesce nella riproduzione di alcune piante, dove tutti gli altri falliscono”, sottolineano gli operatori. Oggi è socio lavoratore della cooperativa: al termine del progetto di “budget di salute”, Luigi vive in autonomia e ha smesso di prendere psicofarmaci. Con il suo lavoro, contribuisce economicamente alla comunità in cui vive, coltivando le terre che 20 anni fa furono confiscate ai clan.

Il suo è un esempio perfetto di come funziona il “budget di salute”. Nato a Trieste come realizzazione dell’idea di Franco Basaglia, che oltre alla chiusura dei manicomi mirava alla costruzione di una vita sociale per i pazienti, ha oggi l’applicazione più avanzata nell’Asl di Caserta, dove si lega al riutilizzo dei beni confiscati alla camorra. La sperimentazione campana è partita nel 2001, quando a dirigere l’Asl di Caserta 2 è arrivato Franco Rotelli, psichiatra triestino già collaboratore di Basaglia negli anni ‘70 ai tempi della chiusura del manicomio di Trieste. Ad affiancarlo, come direttore dell’area socio-sanitaria della Asl, c’era lo psichiatra Fabrizio Starace, oggi Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Modena. Il “budget di salute”, sposta i fondi per il disagio psichico da interventi esclusivamente sanitari (ricoveri, prescrizione di farmaci) a soluzioni che vanno oltre l’ambito medico per toccare aree della vita quotidiana, fondamentali nella cura della patologia mentale: casa, lavoro, affettività e formazione. I progetti di ”budget di salute” sono finanziati in parte dal Comune e in parte dall’Azienda sanitaria locale, e sono realizzati da cooperative iscritte all’elenco di “co-gestori” accreditati. Le decisioni vengono prese coinvolgendo l’utente o la sua famiglia, che dopo aver definito il progetto insieme all’operatore sociale del Comune e al medico della Asl, sceglie la cooperativa che dovrà attuarlo.


Gli interventi riabilitativi della comunità “Alberto Varone” e gli altri portati avanti nella Asl di Caserta sono finanziati al 50% dal Comune e al 50% dalla Asl, attraverso un fondo dedicato a ciascun progetto. L’alta intensità nel primo anno ha un costo di 84 euro al giorno per persona, per abbassarsi a 62 il secondo anno e 42 il terzo. “Dopo 3 anni si arriva a un costo zero” afferma Ciro Maisto, operatore della cooperativa “Al di la dei sogni”. Tradotto in spesa pubblica, significa che i 4-6mila euro per persona al mese, e a tempo indeterminato, pagati per una residenza psichiatrica, scendono a 1.500-2mila euro. E per soli tre anni.
Dalla “sperimentazione” oggi in Campania si è passati a una legge (l’articolo 46 della l. 1 del 2012): tutte le Asl e i Comuni possono utilizzare questo sistema di cura per dare sostegno alle persone che hanno uno svantaggio psichico. “Ci siamo scontrati con grosse istituzioni sanitarie private -racconta Maisto-: prima un ragazzo poteva essere una fonte economica a vita. Alcuni istituti privati seguivano alcune persone anche per 10-15 anni, sempre con la stessa retta, e oggi questo non è più possibile. Con i ‘budget di salute’ dimostriamo che i pazienti, se possono vivere una vita normale in mezzo ad altre persone stanno meglio”. L’obiettivo è che anche le Asl di Napoli, Salerno, Benevento e Avellino, che non hanno quasi mai adottato questo sistema, lo facciano.
L’Asl di Caserta nel 2013 ha avviato 325 “budget di salute”, con circa 160 progetti di convivenza e 40 borse di formazione-lavoro attivate e un centinaio di cooperative coinvolte come co-gestori. Le esperienze più significative, circa una trentina, operano sui beni confiscati alla camorra. Aniello Sacco, coordinatore socio-sanitario dell’Asl di Caserta, spiega come recentemente il modello del budget di salute sia stato applicato a persone con diverse fragilità sociali: “Oltre ai progetti nell’area della salute mentale (49%) vi sono quelli dedicati a disabili (27,40%), anziani (17,81), minori (3,60), pazienti con HIV (1,02), dipendenze patologiche (1,02)”. In totale il budget corrisponde a 11 milioni di euro, di cui 5,8 per la salute mentale. La cooperativa “Al di la dei sogni”, intanto, intende dare concrete opportunità lavorative alle persone che segue nei percorsi di riabilitazione, grazie anche all’apertura di un impianto di trasformazione di prodotti agricoli e di una palestra specializzata in canottaggio -finanziate dalla Fondazione Peppino Vismara e dalla Fondazione con il Sud per 500mila euro-. I prodotti del nuovo laboratorio trasformazione -inaugurato a luglio- saranno venduti col marchio Nco (Nuova cooperazione organizzata, www.ncocooperazione.com) e da Libera.

Nel resto d’Italia, invece, “le strutture residenziali stanno aumentando sempre più il numero di posti letto, senza dare un futuro alle persone” ha spiegato Fabrizio Starace, durante un seminario del marzo 2014. I gestori di cliniche parlano di “economie di scala”, ma non tengono conto del costo -spesso maggiore- del malessere di persone trattate come numeri. Dal 2012, però, il “budget di salute” è parte del Piano di azione nazionale per la salute mentale, e “diverse esperienze hanno lavorato in questa direzione”. “In Emilia Romagna -ha spiegato Starace parlando della Regione in cui opera–  il 10% di un fondo destinato alla residenzialità di persone che provenivano dall’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) è speso usando questa modalità”.

Nel Lazio è addirittura una proposta di legge regionale -la numero 88 del 16 ottobre 2013- a prevedere la “presa in carico integrata della persona e il budget di salute”. In attesa dell’avvio dell’iter in aula, a ottobre parte la sperimentazione in due distretti sanitari romani, il Municipio 14 e i Castelli Romani: “Ci sarà una prima fase di approfondimento tecnico con i servizi pubblici, i rappresentanti degli utenti e del terzo settore -spiega Fausto di Giancaterina, consulente dell’Opera Don Calabria, tra i promotori dell’iniziativa-, e una seconda fase in cui verranno scelti gruppi di utenti che sperimenteranno un progetto personalizzato”. I risultati saranno indicazioni per le linee guida attuative della futura legge regionale. Anche nel Lazio, come in Campania, il “budget di salute” si scontra con gli interessi dei gestori delle strutture residenziali, che potrebbero perdere fino a 90 milioni di euro all’anno. In tutto, offrono 1.350 posti letto sul territorio regionale, e incassano rimborsi che vanno dai 90 ai 210 euro al giorno per persona, a seconda dell’intensità del disagio. Le cliniche assorbono oltre il 50% dei finanziamenti per la psichiatria in Regione Lazio, che nel 2013 ha destinato ai servizi di salute mentale delle 12 Asl 158 i milioni di euro.Tra le cliniche, quella di “Colle Cesarano”, a Tivoli, ottiene ogni anno 9 milioni di euro grazie a 200 posti letto. Dal 2004, la clinica è controllata dalla Geress Srl, che possiede anche la comunità terapeutica riabilitativa “Villa Maddalena” di Castel Madama (Rm) e il 49% di “Villa Serena” nel viterbese. 

In Friuli-Venezia Giulia, invece, non ci sono residenze psichiatriche. L’Asl di Trieste, nel 2013, ha investito 3,5 milioni di euro per garantire a circa 150 sono pazienti progetti con budget di salute. “Il risultato -spiega Renata Bracco, responsabile del sistema informativo del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste- è un numero molto scarso di ricoveri di pazienti in condizioni gravi nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale, che in tutto il 2013 sono stati 40”. Solo 80 triestini, su 4.900 pazienti psichiatrici dell’Asl (che ha un bacino di 235mila persone), sono stati ricoverati in casa di cura convenzionata (in Veneto, perché queste strutture non esistono più nella regione dove operò Basaglia). Dei 17 milioni e mezzo dedicati alla salute mentale in Friuli, 3 e mezzo sono destinati a progetti di budget di salute, 3 alla diagnosi e alla cura, mentre il 60% del bilancio permette l’apertura 24 ore su 24 dei Centri di salute mentale. Una politica che contribuisce allo scarso numero di ricoveri dei pazienti triestini. 

Pubblicato anche su Altreconomia di Ottobre 2014: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4830&fromRivDet=167

Costantino e le cassette della speranza

Riciclare imballaggi agricoli, come forma di resistenza alla crisi. E’ l’esperienza di un romano rimasto disocuppato a 45 anni, che ha trovato il modo di ricominciare. Con un’attività che, oltre che ecologica, è diventata solidale.



“IMMAGINA. Un nuovo inizio“. Dice così la scritta stampata sulla maglietta. “Me l’ha regalata un collega della ditta di escavatori quando son dovuto andare via perchè non c’era più lavoro. Me ne ha date tre, come portafortuna”. Proprio come raccomanda la maglietta, Costantino Marinozzi, 45 anni, romano, diplomato odontotecnico, ex assicuratore, ex operatore di ditta funebre ed ex autista di camion per movimento terra, lo ha immaginato (di nuovo) un modo per ricominciare. “Con un figlio, un mutuo da pagare e una separazione sulle spalle, non hai scelta devi farlo”, dice, il volto provato ma abbronzato e sorridente. Costantino, dalla parlata energica e la battuta pronta, il suo modo di riciclarsi lo ha trovato con un’attività di recupero di imballaggi agricoli. Ovvero le cassette della frutta e della verdura che ogni giorno vengono abbandonate dai venditori ambulanti nelle piazze dei mercati rionali e che, se non passa nessuno a prenderle, vengono raccolte e messe nella pressa dagli operatori ecologici dell’Ama. Eppure hanno ancora un valore e un mercato: “Gli agricoltori le pagano 80 centesimi nuove e 20 centesimi usate”, spiega Costantino che per trarre un reddito da questo bene, ha acquistato un furgoncino con cui le raccoglie ogni giorno per consegnarle a una ditta che le rivende ai coltivatori. “Quando faccio il furgone pieno sono 700 cassette e la ditta me le paga 70 euro, tolti 20 per il gasolio ne restano 50”. Costantino attraversa fino a dieci mercati ogni giorno. Per una mattina decido di accompagnarlo, per documentare un’esperienza di vita che rappresenta una positiva reazione alla crisi economica dei nostri giorni, ma anche un’occupazione che rispetta l’ambiente ed è solidale con altre persone in difficoltà. Perchè oltre a recuperare le cassette di plastica e di legno, quando può Costantino raccoglie anche l’abbondante frutta e verdura invenduta ma ancora buona che viene abbandonata nelle piazze dei mercati a fine giornata, per consegnarla alla sua parrocchia di Fidene: “La lascio lì e alcuni anziani del quartiere, che fanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese, lo sanno e vanno a prenderla”. “C’è anche una vecchietta che conosco fin da ragazzino, che ha solo una stufa per riscaldarsi e le porto i pezzi delle pedane consumate, affinchè almeno non debba comprarsi la legna”, racconta.

L’appuntamento è al mercato di Pietralata alle 10,30. Qui Costantino raccoglie le prime cassette e scherza con i venditori di un bancone di frutta e verdura: “Li conosco da tempo, sono come fratelli, se ho bisogno di qualcosa me lo danno senza problemi, quando posso poi pago”. “In passato ho anche guadagnato bene”, dice, “all’agenzia di pompe funebri fino a 4-5mila euro al mese, anche se lavoravo 12 ore al giorno e spesso durante la notte”. “Quando hanno cominciato a fare gli appalti dentro gli ospedali, erano turni di 48 ore nelle camere mortuarie”, racconta: “Quando avveniva un decesso dovevi prendere il contatto con la famiglia per avere l’incarico.. non era bello”. Mentre procediamo verso un vicino supermercato squilla il telefono: “E’ il gestore egiziano di un negozio di frutta e verdura qui vicino – spiega poi – loro non possono mettere le cassette per strada, hanno il negozio che è piccolo, e allora dice di passare a prendergliele”. Dopo aver raccolto le cassette di plastica già accatastate fuori da un supermercato lungo la strada, arriviamo al mercato rionale di piazza Alessandria in piena attività. Il furgoncino è complicato da parcheggiare ma prima di andare a selezionare le cassette in buono stato, si fa una puntata al bar della piazza. Saluta il barista e gli chiede il “solito aperitivo” a base di Campari mentre si informa del matrimonio del titolare e consiglia un’avventrice indecisa su quale panino scegliere. “Ho pochi vizi, ma l’aperitivo prima di pranzo non me lo possono togliere.. “, dice, poi, uscendo, mi racconta del barista: “Una persona di cuore, sai quante volte tiene panini e brioche per regalarli alle persone che non possono comprarli?” “Solo quando li vivi i problemi, puoi capire le persone che sono in difficoltà”. “Io per esempio mica ci pensavo che i bambini, tanti, morivano in ospedale”. “Poi ho lavorato al Bambin Gesù per i servizi funebri: Cinquecento bambini ogni anno muoiono lì. Troppi”. Costantino ha un avambraccio completamente tatuato con il nome del figlio di 10 anni, mentre l’altro è coperto dal nome del figlio della ex compagna: “Per me dovevano essere uguali in tutto”. Ora è preoccupato perchè spesso stanno da soli, quando la mamma lavora, prima che comincia la scuola: “Cerco di portarlo con me, quando posso, ma non posso far molto altro, purtroppo”. Si accende una sigaretta e riprendiamo il giro. La tappa successiva è il negozio dell’egiziano. Ci fermiamo per due chiacchiere e una fetta di cocomero con limone prima di ritirare il carico. Costantino ripulisce le cassette e le sistema nel camion una dentro l’altra, affinchè resti spazio. 

“La cosa che mi piace di questo lavoro è il rapporto umano con le persone”, dice. “Certo che mi piacerebbe di più fare l’odontotecnico per cui avevo studiato”.  “Avevo iniziato a fare pratica presso uno studio”, racconta, “però poi ho interrotto per fare il militare  e quando sono tornato avevano già preso un altro”. “Avevo provato a fare i rinvii ma non me li hanno presi, poi non è che mi pagavano lì, serviva solo per imparare”. “Dopo ho fatto 4 anni l’autista per una società di assicurazioni, dove poi sono entrato come broker, a quel tempo le cose andavano molto bene”. “Oggi con la crisi, devo ringraziare i miei genitori che ora mi ospitano, e mi hanno prestato i soldi per il furgone”. “Ho pensato a fare questo lavoro perchè mio zio, ha l’azienda ad Albano che ricicla gli imballaggi agricoli per rivenderli agli agricoltori”. “Anche lui ha iniziato questo lavoro così, perchè era rimasto senza nulla, si è prima comprato un mezzo di trasporto e poi si è ingrandito, ora ha un magazzino che acquista e rivende circa 3000 imballaggi agricoli al giorno”. “Per un periodo aveva anche iniziato a produrle le cassette di legno, ma riciclarle oggi rende di più”. Le cose oggi sono andate bene e il furgoncino alle 14 è stato già quasi riempito. Il tour termina al mercato di Piazza Manila, sulla via Flaminia, dove il riciclatore di cassette va a fare due chiacchiere con l’amico titolare di una bancarella di fiori. C’è ancora un po’ di tempo prima che il mercato si svuoti di clienti e venditori: Allora lui dovrà raccogliere in fretta gli imballaggi di legno e plastica prima che i camioncini dell’Ama li mettano nella pressa per ripulire velocemente il piazzale. Già qualche titolare di qualche bancarella fa cenno a lui e altri che per mettere da parte la frutta e verdura avanzata. A breve il furgoncino ripartirà. Con un carico di cassette, frutta, verdure, dolori e speranze, scherzi e battute per rendere più lieve la fatica di ricominciare. Ancora una volta, come ogni giorno.

Pubblicato anche su "Reti Solidali" Ottobre 2014
http://www.volontariato.lazio.it/documentazione/documenti/72397239RetiSolidali_5_2014_CostantinoCassetteSperanza.pdf

Psichiatria: quando sono i rifugiati ad accogliere gli italiani

A Trento 13 richiedenti asilo o titolari di protezione umanitaria convivono con utenti psichiatrici molto gravi. De Stefani (Apss Trento): “Valorizziamo il sapere esperienziale, considerando le persone non problemi ma risorse”

TRENTO - L’idea del progetto di convivenza tra rifugiati politici e pazienti psichiatrici è nata nell’ottobre 2012 dal dialogo e dall’incontro di bisogni di due amministrazioni locali della Provincia Autonoma di Trento, ognuna con l’urgenza di trovare una soluzione abitativa ai propri utenti: Da un lato il Servizio di Salute mentale - che non sapeva come sistemare pazienti psichiatrici molto gravi, bisognosi di attenzione speciale e di una famiglia oltre che di cure specialistiche - e dall’altro il Servizio Attività sociali del Comune di Trento, in cerca di una casa per un gruppo di rifugiati che, a causa della crisi economica, nonostante grandi capacità e qualità umane, non erano riusciti a trovare un lavoro sufficiente a coprire un affitto.
“Attraverso gli assistenti sociali dell’area inclusione del Comune siamo venuti in contatto con un gruppo di ragazzi provenienti dall’Africa subsahariana, con una grande ricchezza interiore, ma privi di un curriculum, della patente e soprattutto della rete di contatti necessaria oggi a trovare lavoro e quindi con una grossa difficoltà abitativa”, racconta Nicola Pedergnana, Capoufficio dei Servizi sociali non decentrati del Comune di Trento, riferendosi alla gestione dei migranti dati in affidamento all’ amministrazione locale in occasione dell’emergenza Nord Africa. Proprio dalla considerazione delle grandi capacità umane dei migranti arrivati a Trento da Lampedusa dopo aver affrontato guerra, carcere e persecuzioni, è nata l’idea di proporre ad alcuni di loro, dopo una formazione specifica, la possibilità di abitare con un paziente psichiatrico ricevendo un rimborso spese. La formazione, realizzata dal Cinformi (Centro Informativo sull’Immigrazione), in collaborazione con il Servizio Psichiatrico dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, è consistita in 60 ore di lezioni teoriche sulla salute mentale e 60 ore di tirocinio alla Casa del Sole (Struttura residenziale sanitaria gestita dal Servizio di Salute Mentale di Trento) o nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) dell’ospedale locale. Dei 45 formati, sono stati selezionati 13 rifugiati poi avviati in progetti di coabitazione. “In questo modo è stata fornita una base abitativa a dei ragazzi che possono con più tranquillità trovare altre occupazioni” afferma Pedergnana. Ma i benefici eccezionali sono derivati soprattutto ai pazienti psichiatrici che nella convivenza con i rifugiati hanno trovato una tranquillità abitativa e rapporti umani di qualità che prima non avevano e “da un anno non hanno più ricoveri ospedalieri”, come sottolinea Marina Cortivo, educatrice professionale e referente dell’”area abitare” Serviziosalute mentalediTrento.
Questo progetto nasce dall’idea di “valorizzare il sapere esperienziale”, spiega Renzo De Stefani, direttore del Servizio di Salute Mentale di Trento, “e dalla considerazione delle persone, non sempre come problemi ma anche come risorse”. Un concetto che, come sottolinea De Stefani, viene da anni utilizzato dal servizio di psichiatria del capoluogo Trentino attraverso il coinvolgimento attivo e retribuito degli Ufe (Utenti e Familiari Esperti) nei rapporti con i pazienti. 

Marzia trova pace con Eliane, fuggita da una dittatura

Da oltre un anno la quarantenne italiana, considerata caso molto difficile, ha avuto progressi nella gestione del disagio mentale, grazie alla convivenza con una donna originaria del Togo, dal carattere materno e fermo

TRENTO - “E’ figlia di una famiglia trentina doc, la cui unica reazione per le sue “stranezze” sono stati rimproveri, rimproveri e ancora rimproveri. La mancanza di affetto che ha sofferto, si è tramutata in un carattere esuberante ma antipatico, a tal punto da non essere più sopportato neanche in una clinica dove l’assistenza è tanto intensa da raggiungere il costo di 300 euro al giorno per persona”, così viene descritta Marzia, donna di 40 anni, in cura dai servizi psichiatrici di Trento fin da giovanissima età, considerata caso estremamente complicato da gestire e per questo, per anni condannata a instabilità abitativa oltre che mentale. Per Marzia il Servizio di Salute Mentale di Trento ha tentato  in passato diverse soluzioni abitative, tutte fallite: Cliniche, case famiglia, appartamenti con altri pazienti, passando da brevi ritorni in famiglia e ricoveri in ospedale. Da oltre anno la quarantenne italiana ha raggiunto una condizione di stabilità abitativa, ma anche dei miglioramenti nella gestione del disagio mentale, grazie all’avvio di un progetto di co-abitazione con Eliane, rifugiata politica del Togo. 

Quella di Marzia e Eliane è stata la prima esperienza del progetto di co-abitazione di pazienti psichiatrici con rifugiati politici, soprannominato “Neri per casa” e realizzato in collaborazione tra il Servizio Psichiatrico dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari e il Servizio Attività Sociali del Comune di Trento: Le due donne convivono in una casa popolare messa a disposizione dal Comune e Eliane riceve un contributo per la gestione della casa. Non si tratta di un’assistenza h24, a differenza di quanto avviene in cliniche e case famiglia: Eliane fa altri lavori fuori casa e a Marzia si reca autonomamente e con regolarità al centro di salute mentale locale, dove vengono realizzate diverse attività creative e ricreative. Anche per questo, come sottolinea Marina Cortivo, referente dell’area “Abitare” del Serviziosalute mentaledi Trento, risultano notevoli i progressi nella gestione del disagio compiuti da Marzia: “Eliane è capace di darle affetto ma anche di dirgliene quattro e di rimetterla a posto quando esagera e tende a mancare di rispetto”.
“A volte è difficile vivere con lei perchè per avere attenzione è provocatoria - racconta Eliane, tra una battuta e l’altra con Marzia - quando vuole proprio farmi arrabbiare mi chiama “negretta”, e ho anche minacciato di andarmene portando la valigia in ingresso, ma a quel punto è corsa a chiedermi scusa”. “Quando Eliane, è stata un mese fuori dall’Italia, Marzia è stata quasi ricoverata”, racconta Cortivo, ma in generale ha fatto grandi miglioramenti: “Da quando sa che ha una casa e c’è Eliane che vi tornerà, Marzia ora tollera anche momenti di solitudine”. 

Jean e Mambaye, da Lampedusa al ruolo di “capofamiglia” a Trento

Jean della Costa D’Avorio e Mambaye del Senegal, sbarcati durante l’emergenze Nord-Africa, sono stati scelti come referenti di due progetti di co-abitazione per pazienti psichiatrici

TRENTO - Jean, 27 anni, rifugiato della Costa D’Avorio, arrivato a Lampedusa un anno fa, non immaginava di diventare responsabile di un appartamento abitato da un’anomala famiglia di uomini italiani a Trento. Arrivato nel capoluogo trentino durante l’"emergenza Nord-Africa", il ragazzo ivoriano è stato selezionato per partecipare al corso di formazione organizzato dal Cinformi (Servizio di Informazione sull’Immigrazione) per la preparazione di persone disponibili a convivere con pazienti psichiatrici gravi, nell’ambito del progetto realizzato dal Servizio Psichiatrico dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (Apss) in collaborazione con il Servizio Attività Sociali del Comune di Trento. Così Jean da qualche mese convive con tre uomini italiani con disagio psichico di diverso livello, in un appartamento in centro città, gestito del Servizio Psichiatrico dell’Apss.
A Jean è stato affidato Luca, diciannovenne con lieve ritardo mentale e grave disagio psichico, adottato in Brasile da una famiglia trentina, ma cresciuto gli ultimi 5 anni in una casa di cura ad alta intensità assistenziale. “Dato che aveva problemi di violenza, nel senso che era manesco, non gli hanno fatto mai tenere in mano un coltello neanche a tavola, con il risultato che a 20 anni non sa neanche tagliarsi la carne, oltre ad essere semi-analfabeta per non aver frequentato le scuole che un giorno a settimana” spiega la referente le progetto. “Quando è arrivato qui non sapeva nè lavarsi nè vestirsi”.  Con Jean il problema della violenza di Luca è stato affrontato, piuttosto che evitato, come avveniva quella clinica specializzata, per la cui convenzione con l’Apss di Trento ha speso in cinque anni circa 400 milioni di euro: “Quando il ragazzo ha provato a toccarlo, il giovane rifugiato africano l’ha sollevato, lo ha guardato negli occhi e gli ha detto di non riprovarci mai più. E così è stato finora”, afferma Marina Cortivo, referente dell’area “Abitare” del Serviziosalute mentaledi Trento.
Oltre a Luca e Fabienne nella casa gestita dall’Apss, abitano Riccardo, ex restauratore di grande cultura separato da una famiglia con due figli in seguito a una grave depressione, e Aldo, trentenne che sta cercando di uscire da una condizione di disagio psichico maturata in seno a un nucleo familiare problematico: “So di avere avuto una sfortuna con la malattia mentale che devo affrontare ogni giorno, dice, ma non è niente rispetto ai drammi da cui provengono Fabienne e Riccardo, dice, devo andare avanti”. I risultati della convivenza gestita da Jean sono stati eccezionali, sottolineano volontari e operatori, ma lo afferma anche lo stesso Luca che prima non parlava con nessuno e oggi racconta: “Prima ho litigato con Aldo per una sigaretta. Ma poi ci ho parlato, ci siamo capiti e ci siamo abbracciati”.
“Erminio è conosciuto da tutti i dipartimenti di salute mentale della Regione. Avrà avuto oltre un centinaia di ricoveri in Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), tutte con necessità di lavanda gastrica per aver ingerito accendini o lamette. Il suo modo di cercare attenzione”: Così viene descritto l’uomo con evidente ritardo mentale e disabilità fisica, oltre al disagio psichico, per cui il Servizio di Salute Mentale di Trento ha avviato un progetto di co-abitazione con Mambaye, originario del Senegal e arrivato in Italia dalla Libia circa un anno fa. Erminio ha trovato una situazione di tranquillità e stabilità abitativa grazie al ragazzo africano ma anche grazie a Donata che è stata in passato sofferente di disagio psichico e che ora vive nel loro stesso appartamento. "Prendermi cura di Erminio fa stare bene anche me", dice la donna che lo segue sia materialmente, occupandosi delle sue pulizie, sia affettivamente, dandogli l’attenzione e l’amore di cui ha bisogno. “Sono stata abusata in famiglia e sento di aver sofferto lo stesso suo problema”, dice e, anche se a breve andrà a lavorare come badante da una signora anziana,“mia intenzione è diventare la sua famiglia” afferma. Al momento sono otto mesi che Erminio non viene ricoverato e sta cominciando anche ad abbandonare i farmaci.
Pubblicato su Agenzia Redattore Sociale - 18 novembre 2013

sabato 3 maggio 2014

Ai funerali di Roberto Mancini: un poliziotto che non seguiva schemi. E leggeva Il Manifesto

Un poliziotto profondamente libero, che non aderisce a schemi precostituiti, al punto che "nei primi anni '80 subì come provvedimento disciplinare il trasferimento da Roma perché visto leggere il quotidiano "il manifesto" e per questo considerato pericoloso e inaffidabile", come ha testimoniato il suo collega.

Un marito solido e capace di condividere battaglie e ideali, nelle parole della moglie Monica: "grazie a tutti voi per essere qui. Vi chiedo solo una cosa: continuare a combattere per la Terra dei Fuochi, lui l'ha fatto per noi è per i nostri figli".

Un padre, in grado di trasmettere fiducia e dare forza "alla fine la vita e' solo una prova e mio padre l'ha affrontata", ha detto la figlia tredicenne "Solo la sua morte è stata la sua debolezza. Vi chiedo di non usarla per affermare la vostra forza".

"Un uomo, una persona giusta", come lo ha descritto Don Maurizio Patricello che ha officiato la messa per i suoi funerali, chiedendo più vicinanza tra i territori contaminati della terra dei fuochi e i palazzi della politica.

Così è stato ricordato questa mattina ai funerali, nella basilica di San Lorenzo a Roma, Roberto Mancini, il sostituto commissario che indago' sulle eco mafie in Campania e nel 1996 consegno' alla Dda di Napoli l'informativa che scopriva la Terra dei fuochi. Che dal 1998 al 2001 lavoro' per la Commissione d'inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti, facendo decine di sopralluoghi nei luoghi più pericolosi dove erano sepolte scorie. Che dopo l'accertamento da parte del comitato di verifica del Ministero delle Finanze che il suo tumore del sangue deriva da "causa di servizio" ha avuto dallo stato un indennizzo di 5.000 euro.

Non sono stati fatti i funerali di Stato per Roberto Mancini, ma funerali solenni. Molto sentiti per coloro che hanno saputo, e potuto parteciparvi. Forse un migliaio di persone, tanti agenti della polizia, "mamme del dolore" che hanno visto i loro figli ammalarsi di tumore nella terra dei fuochi, ragazzi dell'associazione "le agende rosse", ma anche giovani turisti in gita a Roma che si sono trovati a San Lorenzo al momento dei funerali e hanno considerato "doveroso" parteciparvi.