Nel 2008 in Italia sono stati oltre 30.000 i richiedenti asilo politico come Maws. Uomini, donne e minorenni, provenienti in gran parte dall’Africa subsahariana, ma anche, in misura crescente Paesi asiatici, in particolare dall’Afghanistan. Abbandonano le proprie vite e famiglie a causa di conflitti politici, etnici o religiosi. Arrivano stipati in un'imbarcazione, legati sotto un camion o su un aereo. Le loro storie sono diversissime ma accomunate da conflitti, imprigionamenti illegali e torture. E nuove battaglie nel Paese d'accoglienza: prima per il riconoscimento dello status di rifugiato e poi per l'integrazione sociale. Si inizia con il colloquio davanti a una delle sette Commissioni Territoriali per la valutazione della domanda di protezione internazionale. Quindici minuti per illustrare vicende politiche e personali che hanno portato alla fuga e 2-3 mesi d'attesa per la risposta. Che significherà l'inizio di un'altra vita o quello di una nuova fuga. Secondo la convenzione di Ginevra del 1951, l'asilo politico viene accordato al richiedente che fugge da guerre o dittature ed è individualmente perseguitato. La protezione sussidiaria spetta invece a chi rischierebbe un danno grave tornando nel proprio Paese. Il diniego è il rifiuto della protezione, ma la commissione può contestualmente richiedere al questore il rilascio di un “permesso di soggiorno per motivi umanitari”. Nel 2007 su 13.509 domande esaminate, solo il 10,42 per cento ha ottenuto l'asilo o la protezione sussidiaria, il 36,33 per cento sono state rifiutate senza alcuna protezione e il 46,77 per cento ha avuto un diniego con protezione umanitaria.Dalla richiesta di asilo, per sei mesi i richiedenti non possono lavorare. Per questo la direttiva 2003/9/CE dell’Unione Europea indica le norme minime per la loro accoglienza. Compito esplicato solo parzialmente dall'Italia, come risulta dall'ultimo rapporto del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar): nel 2007 sono state 6.284 le persone accolte nei 3.041 posti dello Sprar. Gli oltre 8000 rimasti fuori, sono stati accolti in strutture di associazioni umanitarie o costretti alla strada.
La migrazione forzata: Maws, passione e politica
Al chiedergli cosa lo ha condotto in Italia, il suo sguardo profondo si fa serio e le parole si animano di una convinzione che non lascia posto alla rassegnazione dell'esilio. Maws viene dal Togo, dove l'attuale capo dello stato è il figlio di quel Gnassingbé Eyadema che ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 1967, facendo uccidere Sylvanus Olympio, il primo presidente eletto dopo l'indipendenza. Una dittatura durata decenni grazie a “violazioni dei diritti umani da parte dei militari” e ”l'appoggio fornito dalla Francia al governo di Eyadema”, come ha sempre denunciato Amnesty International. La domanda d'asilo di Maws documenta come a diciannove anni sia stato imprigionato illegalmente e torturato per ottenere i nomi di membri del partito d'opposizione, l'Ufc (Unione delle Forze per il Cambiamento), di cui fa parte. Tre mesi di reclusione in una piccola cella con decine di prigionieri, sigarette spente sul viso e sul corpo e corde che lo hanno immobilizzato e fatto trainare da un camion. Ferite profonde sul corpo e incancellabili nell'anima, ma una volta liberato, Maws ha rafforzato il suo attivismo politico, alternando la vita di universitario con viaggi nelle aree rurali del Togo, per diffondere le idee del partito. Per tre volte è stato di nuovo fermato dai militari: prima avvertito, poi picchiato ferocemente, quindi minacciato, questa volta di morte. Quando i militari sono venuti nuovamente a cercarlo a casa, è stato il partito a mandarlo via: prima in Ghana e poi, per maggiore sicurezza, in Italia, con un aereo diretto a Roma – Fiumicino. Comincia così l'esistenza da profugo che non avrebbe mai immaginato, tra notti in strada, l'incontro con associazioni e centri di prima accoglienza. E' proprio in un centro che poco dopo il suo arrivo Maws fa un incontro inaspettato: Patrik un ragazzo del suo quartiere che ultimamente non frequentava perché come poliziotto, lavorava per il governo. Patrik gli racconta che le autorità avevano deciso di affidargli il compito di far sparire i corpi degli oppositori politici uccisi, portandoli nella foresta, in pasto ai felini. Un compito che considerava intollerabile ma, conoscendo il segreto, se lo rifiutava sarebbe stato ucciso. Così anche per lui, l'unica scelta possibile è diventata la fuga. Allontanati in patria, Maws e Patrik si sono riuniti in un paese straniero, dopo aver compiuto lo stesso sacrificio estremo, di libertà.
L'accoglienza: tra irregolarità e solidarietà
L'avventura italiana di Maws è il percorso (a ostacoli) verso il compimento dell'articolo 10 della Costituzione che recita “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'esercizio delle libertà democratiche, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica”. Dopo aver presentato la domanda d'asilo alla Commissione Territoriale competente, il giovane è stato convocato per l'audizione, ma invece dei quattro commissari previsti per legge (rappresentanti di Prefettura, Polizia di Stato, Comune e Alto Commisariato Onu per i Rifugiati) si è trovato di fronte a un solo membro giudicante. Un'irregolarità che risulta frequente: hanno riferito di essere stati ascoltati da un solo commissario, il 31,3 per cento dei diniegati, intervistati per la ricerca “Presenze trasparenti”, realizzata nel 2007 dai Centri di Servizio per il Volontariato nel Lazio (Cesv). Maws racconta inoltre, che il commissario parlava continuamente al telefonino, interrompendolo spesso. Il diniego pervenuto al ragazzo due mesi dopo, motiva “gli avvenimenti raccontati non appaiono credibili”, senza considerare il certificato dell'associazione “Medici contro la Tortura”, secondo cui le cicatrici che Maws ha sul corpo sono “inequivocabilmente causate da atti violenti compiuti sulla persona in condizioni di non difendersi”. Grazie alla disponibilità di un giovane avvocato segnalato dall'associazione Centro Astalli, Maws ha fatto ricorso. Ma nell'attesa della risposta, la questura di Roma si rifiuta di rinnovargli il permesso di soggiorno: non può lavorare se non in nero e i responsabili del centro che lo accoglie rischiano sanzioni penali. E' diventato un “irregolare”, a causa di irregolarità altrui. E le cose potrebbero andare peggio in futuro: l'attuale proposta di legge sull'asilo prevede limitazioni ai ricorsi dei richiedenti rifiutati in prima istanza e la possibilità di immediata espulsione nel Paese da cui sono fuggiti. Mentre le associazioni impegnate a fianco dei rifugiati, riunite nel Tavolo Asilo, lavorano per modificare tale testo e chiedono una legge organica in materia (l’Italia è l’unico Paese europeo a esserne privo), Maws aspetta: un permesso di soggiorno, di lavoro e di vita.
L'integrazione: Mary, lotta ai pregiudizi e nostalgia
“Mary preparati, stasera nel tuo piano arrivano settanta donne con bambini da Lampedusa”. L'operatrice del centro di accoglienza comunica le novità dovute all'emergenza sbarchi estiva e la giovane rifugiata ripensa al giorno del suo arrivo in Italia: “Volevo tornare indietro, non sopportavo l'idea di abbandonare il mio Paese”. Mary, 35 anni, della Costa d'Avorio, ha un volto curato e luminoso che si adombra quando, parlando del fratello ambasciatore o del marito, aggiunge che sono morti, “uccisi”. Parla del suo Paese “pieno di ricchezze”, tanto da mandare aiuti alle altre nazioni africane e accogliere 8 milioni di immigrati, fino allo scoppio della guerra civile nel 2002. La guerra tra le truppe del governo di Laurent Gbagbo e i ribelli delle Forze Nuove ha provocato oltre 3000 morti e, come sottolinea il rapporto 2007 di Amnesty International, “particolare violenza contro le donne, da entrambe le fazioni”. Mary dice di aver resistito anni, sperando che le truppe francesi e i 10.000 caschi blu della missione dell'Onu portassero stabilità, ma che “troppi interessi economici, come il petrolio nel golfo di Guinea”, hanno prevalso sul benessere della popolazione.
La giovane ha ottenuto l'asilo politico in Italia, grazie ai documenti rilasciati dai soldati francesi che l'hanno liberata dal carcere. Racconta di aver ricevuto molto aiuto e affetto nel centro dove è stata accolta, “ma fuori, in strada, o sull'autobus c'è gente che ti guarda con disprezzo e arriva a dirti di tornare al tuo Paese: molti italiani non sanno cosa vuol dire essere rifugiato”. Oggi la sua più grande preoccupazione è trovare un lavoro, ma il riconoscimento del diploma da infermiera, che deve passare per la rappresentanza diplomatica italiana in Costa d'Avorio, tarda ad arrivare. Così, mentre lavora part-time in una casa privata, dà una mano ad altri rifugiati, soprattutto donne con bambini. In attesa di ricostruirsi una vita e “fare qualcosa, anche da qui, per il mio Paese”.
Il viaggio di Abdul e la Convenzione di Dublino
Quando arriva all'intervista, fisico fragile e sguardo timido, non lascia immaginare l'avventuroso viaggio durato anni, che lo ha portato in Italia. Iniziato quando la madre, sola perché il padre era andato in guerra, lo affidò undicenne a una famiglia amica in partenza per il Pakistan. “Mi hanno trattato come un figlio, ma quando sono finiti i soldi ho dovuto trovare un lavoro”, racconta Abdul che a dodici anni, con altri coetanei, ha cominciato a scavare in una miniera pakistana. Per sei mesi, fino a quando una ferita sulla mano lo ha costretto lasciare il lavoro e il paese. “Ho trovato dei passaggi in macchina, fino a Teheran – dice – c'è solidarietà dalle mie parti, mica come in Italia, dove pensano che vuoi solo rubargli..”. A Teheran, con altri piccoli migranti come lui lavora come muratore, “ma quando è uscita una legge per l'espulsione degli immigrati illegali, con alcuni compagni siamo dovuti fuggire”. Dieci giorni di cammino, per attraversare il confine con la Turchia, accompagnati da membri della locale mafia, “come quella italiana, solo che lì se ti uccidono non interessa a nessuno!”. Quindi il pericolosissimo passaggio in mare per la Grecia: “Con altre 20 persone su un gommone bucato, dovevo tappare il foro con un dito, non pensavo che ce l'avrei fatta. Ma non avevo altra scelta”. Arrivato in Grecia viene rinchiuso tre mesi in un Centro di Permanenza Temporanea, in attesa di identificazione: “Con africani e altri afgani, mangiavamo un pezzo di pane, una volta al giorno”. Rilasciato con l'ordine di andarsene dal paese entro 20 giorni, Abdul rimane sei mesi facendo la raccolta dei pomodori, delle mele e delle arance, fino a mettere da parte i soldi per quella che spera essere l'ultima traversata. Incastrato sotto un camion diretto a Venezia: “Basta una disattenzione e sei morto”. Ma alla frontiera, la polizia guarda sotto il camion e lo rimanda indietro, “nonostante – specifica l'operatrice dell'associazione che ora lo segue - le normative internazionali impongano di dare ad ogni straniero la possibilità di richiedere asilo”. La Grecia è riconosciuta come il Paese europeo più severo con i rifugiati: per questo pochi mesi dopo il ragazzo ritenta l'impresa, questa volta dentro alcune casse caricate sul camion, ma sviene e si risveglia in un ospedale tedesco. In Germania le autorità, ricostruito dalle impronte digitali il suo viaggio, preparano il rientro di Abdul in Grecia. Secondo la Convenzione di Dublino infatti, è competente a esaminare la domanda di asilo il primo paese europeo cui giunge il richiedente. Allora Abdul si rimette su un camion, con cui arriva in Finlandia dove, in quanto minorenne, viene affidato ad una famiglia. In quella casa trova calore, affetto e tregua ai vagabondaggi. Ma l'angoscia che ha dentro e la paura non si placano: sente che questa situazione non può durare a lungo. E' per questo che fugge di nuovo. In Germania dove, da clandestino, compie 18 anni. Sta male, chiama la famiglia finlandese, che decide di adottarlo quando però è troppo tardi, perché lui ormai è maggiorenne. L'ultimo biglietto acquistato da Abdul lo porta a Roma, stazione Ostiense. E' infatti alla tendopoli del terminal di piazzale dei Partigiani, che da anni sono accampati molti afgani, un gran numero dei quali minorenni, con storie simili a quella di Abdul.
Il futuro: tutelare i minori richiedenti asilo
A Roma il ragazzo frequenta la mensa della Caritas dove conosce associazioni specializzate nell'assistenza legale ai richiedenti asilo. Scopre che le sue fughe sono durate più dei 18 mesi entro i quali le autorità dei paesi membri della convenzione di Dublino, avrebbero potuto rimandarlo in Grecia. E' così che ha potuto avviare la pratica per ottenere la protezione umanitaria. Ha poi ricercato la sua famiglia in Afghanistan, scoprendo che il padre è tornato dalla guerra ma la madre è morta. E’ anche tornato in contatto con la sua “famiglia europea” in Finlandia: “persone anziane, che non possono viaggiare – dice – ma appena avrò il permesso di soggiorno qui, andrò a trovarle io”. Ora ha finalmente iniziato a pensare a un futuro diverso dalla fuga, vuole lavorare in una pizzeria e magari un giorno, aprirne una sua.
Secondo i dati raccolti dal Programma Integra, i minori richiedenti asilo in Italia sono aumentati negli ultimi tre anni del 146 per cento, di cui il 70 per cento viene dall'Afghanistan. Altri vengono da Eritrea, Etiopia e Irak. Giovani vite abituate al rifiuto e sempre più a rischio, dopo che lo scorso giugno il Parlamento Europeo ha approvato la direttiva sui rimpatri degli extracomunitari irregolari, che allarga ai minorenni la possibilità di detenzione e allontanamento obbligatorio. Una nuova minaccia per questi ragazzi cresciuti fuggendo, il cui sogno più grande resta una casa e una vita normale. Diritto universale che solo l'impegno degli Stati potrà ancora garantire.
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